Se quando si parla di poesia il vostro pensiero scava tra le macerie scolastiche e non andate oltre “La nebbia agli irti colli”, “Oh cavallina, cavallina storna” o “Ei fu, siccome immobile”, questo libro fa per voi.
Se alla parola “amore” automaticamente associate in rima “cuore” questo libro fa per voi. E questo libro fa per voi anche se siete stanchi di un certo cinema sdolcinato, di certe pubblicità alla melassa, di Harmony e Liala fuori tempo massimo. Il libro che fa per voi è “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”, agile volumetto di Michele Mari edito da Einaudi nel 2007 che ha avuto in questi oltre dieci anni una fortuna che un po’ dispiace all’autore, infastidito dal sentirsi diventato quasi un Bacio Perugina. In verità, queste cento poesie, brevi, secche, essenziali, a volte evocative come haiku giapponesi, altre volte sferzanti come epigrammi di Marziale, sono godibilissime e non di rado stappano un sorriso, pur essendo venate da un tono che oscilla tra il grottesco e il macabro.
Michele Mari ricorda e racconta un amore mai consumato – forse immaginario o forse reale – che si trascina in più di trent’anni, nato tra i banchi del liceo e spirato probabilmente tra la noiosa saggezza ipocrita che l’età e lo status sociale consigliano alle signore borghesi. Tra le pagine del libretto fanno capolino citazioni di film e richiami accademici, le passioni pokeristi che dell’autore ed il suo quasi ossessivo ritornare a discutere su quello che poteva essere e non è stato, per neghittosità o timida ritrosia dell’uno o per alterigia o semplice disinteresse dell’altra.
Se non è mai bello sorridere delle disgrazie altrui, sarebbe altrettanto inopportuno non dare a Michele Mari il giusto riconoscimento che le sue poesie meritano, magari facendo emergere nella nostra memoria simili disavventure sentimentali, più o meno adolescenziali, o cimentarsi con gli amici nella gara a chi indovina il maggior numero di citazioni cinematografiche, a partire da quella del titolo, non facilmente coglibile da chi abbia meno di quarant’anni.
Scordatevi le rime più o meno baciate, rinunciate all’happy ending e scoprite – se già non lo conoscete – uno dei più interessanti ed originali autori italiani contemporanei, che rinuncia completamente a punti e virgole, concedendosi solo “a capo” e tabulazioni per indicare pause sintattiche e separazione delle strofe. Anche questo è Michele Mari.
Ti cercherò sempre
sperando di non trovarti mai
mi hai detto all’ultimo congedo
Non ti cercherò mai
sperando sempre di trovarti
ti ho risposto
Al momento l’arguzia speculare
fu sublime
ma ogni giorno che passa
si rinsalda in me
un unico commento
e il commento dice
due imbecilli