Pochi gruppi musicali come i CCCP Fedeli alla Linea hanno segnato l’immaginario collettivo italiano.
Nonostante la loro di fatto breve carriera, nonostante cambi di nome, stravolgimenti di formazione, scelte di vita e ideologiche a dir poco radicali, il loro ritorno sulle scene – dopo quaranta anni dalla pubblicazione del loro primo EP – è stato salutato da una risposta entusiasta da parte del pubblico.
Il prezzo da pagare per vederli di nuovo sul palco è stato prendere atto che oramai la musica vive di merchandising, e che – piaccia o non piaccia – t-shirt, spillette, poster e quant’altro sono il prezzo da pagare per avere in cambio streaming gratis e ascolti illimitati.
Vedere davanti al palco almeno tre generazioni di ascoltatori è stato emblematico, e ciascuno ha potuto farsi la sua idea. Il punkettone over sessanta a qualcuno sarà sembrato patetico e ad altri un esempio di coerenza; la ragazzetta attenta a scattare un selfie in direzione palco per alcuni è quasi un oltraggio all’estetica del tempo che fu e per altri è un segno dei tempi che hanno normalizzato l’idea che “se non hai una foto allora non è successo”.
Arrivando a ciò che è più vicino all’oggetto di questo blog, non possiamo che concordare sul fatto che – sia come sia – Ferretti, Zamboni, la Giudici e Fatur hanno rappresentato, oggi come ieri, quell’etica incarnata da singoli o gruppi musicali ben consapevoli che le loro produzioni “sono solo canzonette” ma – ciò non ostante – sono ben disposti a impegnarsi per le proprie idee, e che le stesse idee accettano di cambiare quando ritengono che sia giusto farlo, aldilà di ciò che questo comporta, accettando di passare per traditore oggi agli occhi di chi ieri lo esaltava, di rischiare un successo consolidato per sperimentare nuove strade o per “contaminarsi” con la musica popolare lasciando le impervie vette della musica colta, senza per questo rinunciare a offrire evidenti e costanti stimoli di riflessione.
Che i CCCP Fedeli alla Linea siano tornati sul palco perché un bonifico fa comodo a tutti, perché ogni tanto è opportuno ribadire che “in fedeltà la linea c’è”, per mostrarci con plastica evidenza cosa è quanto è cambiato in quarant’anni oppure per accogliere – finalmente! – le preghiere laiche di chi da decenni li implorava di fare pace in fondo importa poco, anzi nulla.
Si può fare tutta la dietrologia del mondo, ci si può lambiccare il cervello per indagare sui motivi della separazione prima e della riunione oggi, ci si può baloccare con una estetica che allora pareva rivoluzionaria ed oggi quasi conservatrice, si possono (ri)leggere vecchie canzoni come “Madre” oppure “Palestina” alla luce dei tragici avvenimenti di questi mesi, si può scotere il capo perplessi di fronte a certi coretti da ultras di una parte del pubblico evidentemente fermo ad un approccio manicheo lontano anni luce da quello di Ferretti e Zamboni oppure – citando quanto da loro stessi affermato nel loro primo disco – farsi coraggio sapendo che il mondo è nostro, la situazione è eccellente e CCCP è con noi.
In una sera di fine maggio a Bologna è stato dimostrato, oltre ogni cinico dubbio, che c’è ancora chi fa ciò che ritiene giusto, non ciò che ritiene comodo, aldilà di cosa ne pensino gli altri. E questo, quarant’anni dopo, è ancora una gran bella consolazione, nonostante tutto.