«Il 30 giugno 2016 sono scaduti i termini per la presentazione delle offerte per l’acquisto dell’Ilva. Quello stesso giorno su alcuni giornali, Piero Gnudi, uno dei commissari del Governo, commentava trionfalmente il dimezzamento delle perdite del gigante siderurgico.» lo ricorda in una nota Antonio Caramia, già Presidente Confindustria Taranto e Vicepresidente Confindustria Puglia.
«Nella paradossale e incredibile vicenda Ilva – afferma ancora Caramia, passare da 50 a poco più di 20 milioni di euro di perdite al mese è motivo di grande soddisfazione. Comprendiamo la necessità di infiocchettare un’azienda ormai collassata per farla apparire ancora appetibile agli occhi dei nuovi acquirenti, ma da imprenditore e, soprattutto da tarantino, questa mi sembra un’operazione spregiudicata. Lo stesso X decreto Ilva se ne infischia di Taranto e dei Tarantini: elargisce immunità ai nuovi acquirenti, senza offrire garanzie reali in tema di risanamento ambientale, mantenimento dei livelli occupazionali, piani industriali. La follia è arrivata a tal punto che per pagare il fiume di soldi che lo Stato sta erogando all’Ilva (oggetto di verifiche da parte dell’Unione europea), potrebbe rendersi necessaria una stangata sulla bolletta elettrica.
Tutto questo ci convince ancora di più di una cosa: l’Ilva va chiusa. Va chiuso un ciclo industriale che produce malattie e morte, va chiuso un modello che non dà più ricchezza e sviluppo al nostro territorio, va chiusa una realtà che non offre garanzie e stabilità occupazionali, va chiusa una fabbrica che produce debiti e inquinamento, va chiusa un’industria tenuta in vita artificialmente da dieci decreti legge.
Il futuro di Taranto – prosegue Caramia – non può essere segnato dai “wind day”, dai giorni di forte vento in cui il massimo che si può dire agli abitanti del rione Tamburi è “tappatevi in casa”. Il prossimo passo quale sarà? Raccomandazioni sanitarie che consigliano di non respirare? E’ davvero troppo, siamo al colmo! La strada da percorrere è una soltanto ed è quella abbandonare un risanamento impossibile per intraprendere nuove occasioni di sviluppo che puntino ad un sistema industriale innovativo e diffuso, alla valorizzazione della filiera agroalimentare e turistica, all’implementazione dei trasporti e della logistica.
In questa vicenda non ci sono salvatori della Patria e men che meno lo sono i Gruppi che si sono candidati a rilevare l’Ilva. Emma Marcegaglia tira acqua al suo mulino, parla di “offerta di valore” riferendosi alla cordata con Arcelor Mittal. La ex presidente di Confindustria si autoproclama “il più grande trasformatore d’acciaio europeo” e conferisce al gruppo franco-indiano la corona di “più grande polo siderurgico del mondo”.
La Marcegaglia, che ha già ricevuto in regalo la presidenza dell’Eni, evidentemente non ha ancora placato gli appetiti di famiglia che a Taranto conosciamo bene. Il Gruppo Marcegaglia approdò in riva allo Jonio accolto da grande entusiasmo ma il territorio è stato ripagato con due fallimentari iniziative nel settore delle caldaie industriali e del fotovoltaico che hanno lasciato per strada oltre 100 lavoratori con le rispettive famiglie. Arcelor Mittal, invece, ha il vizietto di acquistare aziende siderurgiche e smantellarle poco dopo come è già accaduto in Francia. Il 2015 per il Gruppo franco-indiano è stato contrassegnato da pesantissime perdite: 711 milioni di dollari nel solo terzo trimestre. Tutto chiaro, no? A questa cordata si oppone AcciaItalia, creatura composta da Acciaieria Arvedi (20,20%), Cassa Depositi e Prestiti (44,50%), Delfin-Sarl (33,30%). Un raggruppamento, questo, con una prevalente componente finanziaria rispetto a quella industriale e con la presenza maggioritaria dei soldi pubblici di CdP.
A pensare male si fa peccato – diceva Andreotti – ma spesso ci si azzecca. Ecco, non vorremmo che il vero interesse di questi Gruppi fosse il tesoretto di Cassa depositi e prestiti che il Governo sta mettendo a disposizione per un’azienda ormai al collasso. Il pericolo è che chiunque subentri ai commissari, dopo aver beneficiato di ingenti iniezioni di denaro pubblico, spenga gli altiforni lasciando sul nostro territorio, disoccupazione, devastazione ambientale e danni sanitari. Ecco perché sarebbe meglio che quelle risorse finanziarie venissero destinate al rilancio e allo sviluppo di una Taranto diversa.
Decidiamo quello che vogliamo – conclude Caramia – altrimenti altri, sbagliando, lo faranno per noi.»