Il passaggio dalla aristocrazia – nobiltà (o nobiltà – aristocrazia) alla borghesia nella temperie della caduta del Regno di Napoli non fu, chiaramente, indolore.
Non fu neppure un passaggio immediato. Si avvertì tutto la complessità e la conflittualità dello sradicamento di un sistema anche dopo, addirittura, la Seconda Guerra Mondiale.
Il passaggio venne attutito sia nel corso dei preparativi e dello svolgimento della Grande Guerra sia, soprattutto, durante il Fascismo sino alla sua caduta. Si avvertì un attraversamento storico che fece molto discutere sul valore (e sul concetto) di Risorgimento incompiuto.
Perché, in fondo, si parlò di Risorgimento incompiuto?
Perché se ne parla ancora oggi studiando quella temperie?
C’è un fatto che resta molto indicativo. La nobiltà – aristocrazia non fu pienamente risorgimentale, o meglio non fu pienamente consapevole di una accettazione del Risorgimento.
Fu incompiuto perché non solo non espresse in termini concreti tutto il progetto programmato, ma anche perché non venne accettato da chi il potere lo aveva esercitato realmente, fino al giorno prima che si sancisse l’Unità d’Italia.
La Grande guerra accentuò questo fenomeno sino a definire la borghesia come classe dominante. La borghesia, sostanzialmente, è la classe che diede vita al socialismo e poi si manifestò sotto gli emblemi del comunismo. Non il proletariato. Ciò che il socialismo non volle capire fu il traslocamento del potere dalla nobiltà – aristocrazia alla borghesia. Non passò mai al proletariato. La cosa peggiore è stata la borghesia arricchita e ignorante, meglio incolta.
Il romanzo di Tomasi di Lampedusa è l’estrema “spiegazione” di una visione in cui gli Stati – Regioni – Regni sarebbero dovuti diventare Nazione unica. Il rifiuto di don Fabrizio, nel romanzo citato, nell’accettare il seggio senatoriale è la metafora vera della rottura della Nazione, perché sancisce la divisione delle classi.
Se avesse accettato si sarebbe conformato con la piccola o grande borghesia perdendo quella dimensione valoriale di aristocrazia – nobiltà. Nel senso che la nobiltà, pur sconfitta e decaduta, non può intrecciarsi con una borghesia incolta e senza eredità – radici o identità.
È la storia, da me evidenziata più volte nei miei studi, vissuta da molte famiglie nobili e aristocratiche anche dopo la caduta del Fascismo. Il libro i “Cinque fratelli. I Bruni Gaudinieri nel vissuto di una nobiltà” (Pellegrini, tra qualche mese in nuova edizione) pone, tra le pagine storiche e di interpretazione storiografia e politica, una simile questione. Una famiglia nella Calabria cosentina.
Mio nonno Virgilio Italo (nobile di madre Gaudinieri e monarchica e di padre aristocratico e fascista), il terzo dei “Cinque fratelli”, perché la storia si fa con i propri vissuti e con i documenti alla mano e non con il sentito dire, non volle mai accettare di diventare sindaco del proprio paese. Proprio all’interno delle famiglie il confronto fu spesso forte.
Il caso che mi riguarda personalmente. Mia nonna Maria Caracciolo, sposata Bruni, è stata una militante decisa democristiana, dopo la caduta del Fascismo, ed è stata più volte presidente dell’Azione cattolica del suo paese. Il suo cognome rimanda ai Caracciolo di Napoli. Un’altra nobile dinastia che incontra con i Bruni.
Una famiglia, i Bruni – Gaudinieri, del nord della Calabria, di professionisti, proprietari e commercianti, portava nel sangue la nobiltà stemmata dell’aquila con la rosa in bocca di alto lignaggio nobiliare. Restarono fedeli sino alla fine alla loro tradizione e alla loro appartenenza culturale.
Questi due nuclei vengono arricchiti da altre rappresentatività come i Notte (Maria che sposa Mariano), i Tricoci (Adalgisa che sposa Luigi) e i Fiore (Teresa che sposa Adolfo). Possidenti di antichi lignaggi.
Fu una famiglia che visse dei passaggi epocali e che segnò un territorio proprio in termini economici. Fu, tra l’altro, una famiglia che legò non solo aristocrazia e nobiltà, ma anche potere monarchico (con la sua immagine e con il suo immaginario sia borbonico che sabaudo) con l’autorevolezza della Chiesa.
I Gaudinieri, come abbiamo avuto modo di evidenziare, erano dentro le due monarchie, ma anche dietro la forza dell’eredità clericale. I Bruni erano, durante gli anni Venti – Quaranta, il Fascismo ma anche l’economia del mercato e dei nuovi modelli commerciali. Un nucleo familiare all’interno della trasformazione del Regno di Napoli e successivamente nel passaggio tra la Grande Guerra e il Fascismo. Era, come che si suole dire, una classe nobile – aristocratica dominante.
Ecco perché il romanzo il “Gattopardo” diventa una premessa fondamentale ai “Cinque fratelli”. Un racconto nell’intreccio tra storia, identità e famiglia. Comprendere ciò è capire anche un sistema “ideologico” che le classi borghesi non sono riusciti ad afferrare. Borghesi, infatti, si diventa e non per ceto. Nobili e aristocratici si nasce.
Il tema del Risorgimento incompiuto non bisogna svilupparlo intorno alla figura del “povero” Garibaldi, più volte illuso e tradito, ma intorno alle sfaccettature di una borghesia incolta e non preparata. L’emblema del personaggio Sedara, nel “Gattopardo”, è una vera testimonianza. Così come in tantissime altre realtà.
D’altronde la situazione politico – culturale di questi anni contemporanei è una testimonianza drammatica di ciò che è stato il passaggio di classi e il passaggio generazionale, consumatosi in una Nazione che non è mai diventata tale e che non è rimasta Regno.
(Si ringrazia per la collaborazione Micol Bruni, Storica delle Etnie, autrice dell’articolo)