I popoli sono una archeologia di macerie che restituiscono tracce di civiltà. Le civiltà sono fatte di archeologia. Cammino tra macerie. Il nostro viaggio è fatto di macerie. Recuperarle significa dare un senso a un tempo che è frammentato di storie. Il tempo è fatto di storia nello spazio di ciò che è stato. Tutto ciò che è stato è un narrare le epoche e le età.
Da errante non cerco. Ascolto in un camminare tra passi antichi e nuove orme che i miei passi lasciano sulla sabbia, sulle dune, sulle onde dei mari. L’errante è un archeologo del proprio viaggio. Il mio essere archeologo tra i simboli e le parole formano un linguaggio che è essere e tempo.
Una filosofia dell’esistenza. L’archeologia è la filosofia della memoria. Ci porta in un viaggio alchemico tra il tempo e l’immaginario. Nel mondo sciamanico le etnie sono il tempo delle tribù. Le maschere e le danze sono simboli di esistenza.
Le civiltà non sono mai culture separate. Esistono perché vivono nelle memorie dei popoli. L’archeologo deve avere la capacità di leggere, attraverso gli strumenti della filosofia, le culture. Gli strumenti sono dati dal pensiero e della conoscenza della metafisica dell’anima.
Archeologia e antropologia ed etnologia non possono vivere separati. Devono poter convivere per entrare nel viaggio di una metafisica delle civiltà. Il mondo sciamanico legge il Pensiero attraversando i tre mondi. Comparazioni di esercizi ontologici e scavi di infinito.
Ogni archeologo è un errante che vive tra le maschere della memoria. Ogni errante vive nell’archeologia delle certezze del dubbio. Perché viviamo di tramonti. Scaviamo nei tramonti delle epoche.
Noi siamo un tramonto. Perso tra gli orizzonti che devastano ciò che abbiamo vissuto. Ma non tutto ciò che abbiamo vissuto lo abbiamo abitato. Ci accorgiamo che il tempo si è lacerato soltanto quando lo spazio tra noi e ciò che resta si è fatto corto. Se è possibile poniamoci in ascolto del solo silenzio che resta, quello errante. Il silenzio errante non è un conforto. È una contemplazione.
Il resto ci appartiene perché Qualcuno ha deciso che debba appartenerci. Il divino non è nella nostra Potenza. L’illuminazione è nella nostra Volontà. Ma non siamo noi a decidere. Il silenzio errante è un dialogare con la solitudine errante. Se cerchiamo la bellezza ancoriamo per un tramonto soltanto la nostra vela tra questi due porti.
Il sonno sarà interrotto dall’alba e un canto sciamano ci condurrà dove solo il vento dell’anima sa. Questo vento si nutre di mistero. Il mistero comunque non è alchimia.
L’alchimia non si pone il problema del mistero. Il mondo sciamanico è una erranza. La magia, tra alchimia e archetipi in un viaggio etno – antropologico e letterario che ha come riferimento la profezia e il mito, non è rappresentazione ma dimensione onirica. Ascolto il Canto dello Sciamano negli attraversamenti filosofici del tempo abitato e il viaggio diventa immaginario e simbolico.
I simboli appartengono al nostro esistere perché nel nostro esistere insiste il nostro essere stati esistenza. Noi siamo perché siamo stati esistenza. Altrimenti nulla avrebbe senso. Nulla avrà senso se non confideremo il presente come la possibilità di leggerlo come archeologia di un’età.
Il passato ha un suo orizzonte perché non ci viviamo più (ovvero non viviamo più in quel passato che è stato presente), ma lo viviamo e vivendolo tentiamo di afferrare segni di conoscenza. Noi siamo conoscenza.
Nel momento in cui smettiamo di essere conoscenza entriamo in un labirinto nel quale non abbiamo ancora deciso se restarci o navigare tra le onde di scoglio. Nella archeologia del sapere si diventa interpreti in una visione che è etnica e antropologica.
Nelle macerie non ci sono rovine. Solo silenzio. Leggere il silenzio è viverlo. Siamo dentro questo viaggio perché siamo e restiamo viaggio. Io archeologo ed errante tra macerie e memoria mi inseguono la filosofia e le antropologie in un umanesimo del tempo nella vita. Lo sciamano è archeologia ma anche profezia.