La vita si vive consumandola tra il pensiero e la vacuità. Una tristezza che accoglie le malinconie di una letteratura che si apre ad una distinzione del dolore. Vita e letteratura sono un intreccio. Non un incontro. Il dolore si “maschera”, a volte, nel senso dell’inquieto e trova la sua possibilità di esistere nella necessità del tragico.
La letteratura del tragico è quella che supera la solitudine come dolore e vive l’agonia terribile dell’angoscia. Da Aleksandr Puskin (1799 – 1837) a Luigi Pirandello (1867 – 1936), da Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1861) a Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938). Il tutto nell’immensità di una metafisica della consapevolezza del vivere con Søren Aabye Kierkegaard (1813 – 1855).
Qual è la scommessa tragica tra questi scrittori di generazioni diverse? Puskin è un giocoliere della vita che ha accettato le sfide fino a morirne, (muore a causa delle ferite in duello con il presunto amante della moglie), e integrarsi nella morte come, appunto, gioco. Pirandello, forse il più temerario, ha inciso nello sdoppiamento dell’io i suoi tanti personaggi che poi conducono ad uno solo che è quello di uno – nessuno. Dostoevskij si è cercato penetrando la memoria, ma ha compreso che per capirla occorre scavare nel sottosuolo. D’Annunzio ha usato terribilmente l’alchimia dell’estetica per uscire fuori da una cabala che ha il velo del tragico. Kierkegaard ha formalizzato la malattia dell’anima come senso del mortale nel tempo dell’uomo, pur percorrendo un viaggio completamente religioso e spirituale.
Il tragico come memoria mai persa. Il problema è proprio qui, ovvero nella circonferenza che questi scrittori e filosofi enucleano. La memoria non è una maschera. Pirandello ha cercato di farla diventare tale ma ha corso il rischio di lasciarsi catturare dall’irrequieto pianto del “gorgo muto”. Perché nel gorgo muto c’è l’assenza dell’amore. Perdere la memoria è perdersi. “L’inferno è la sofferenza di non poter più amare” (Dostoevskij). Abbiamo bisogno sempre di memoria. Questo è il punto nodale intorno al quale si completano questi personaggi. Ma la memoria ci libera e ci condanna.
I personaggi di Pirandello vivono e soffrono questa condanna come quelli di D’Annunzio e dello stesso Dostoevskij. Kierkegaard dirà: “L’angoscia è la vertigine della libertà”. Angoscia, vertigine e libertà. Tre concetti chiave per definire il viaggio inquieto di esistenze consacrate alla “recita” della letteratura o meglio alla “teatralità” dello scrivere. Recita e teatralità! Lo scrittore, il filosofo, il pensatore non possono fare a meno di viversi dentro queste due “impalcature”. Lo scrittore è sempre il personaggio di se stesso. Si pensi a Puskin, il quale ha molte condivisioni propriamente letterarie con Pirandello, al suo vissuto.
Puskin era convinto che “Gli uomini giudicheranno le tue parole, le tue azioni; le tue intenzioni le vede solo Dio”. Si entra dalla porta della memoria per sottoporsi al senso di infinito e dell’enigmaticità d’esistere. Pirandello: “Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero!”. L’immensità della melanconia è la costante di un volto che ha davanti uno specchio ma dietro lo specchio, o dentro, cosa si nasconde? D’Annunzio: “La nostra vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti”. Così, allora, la vita si vive consumandola tra la passione del morire e la passione irreverente del viverla.
Puskin attraversa il senso di follia e cerca di farsene un vanto della ragione come avviene in Pirandello, ma nelle loro vite è la quotidianità di convivere con la follia che rende sublime il colloquiare tra la ragione e l’intelligenza. Puskin: “È terribile diventar pazzo. È meno pesante morire. Un defunto lo guardiamo con rispetto. Diciamo per lui le preghiere. La morte fa tutti eguali a lui. Ma l’uomo privato dell’intelligenza, cessa d’essere un uomo. La parola gli è data invano, egli non la sa dominare, in lui la belva riconosce un suo fratello; è oggetto di derisione per gli uomini; ognuno può far di lui quello che vuole, Dio non lo giudica”. Siamo al canto e controcanto pirandelliano. D’altronde, come già si diceva, tra Pirabndello e Puskin si nota una forte correlazione, soprattutto quando Puskin recita la sua classicità e la sua grecità tra i miti e simboli cari a Pirandello.
Puskin così nei versi della poesia “A una greca”: “Tu sei nata per accendere l’immaginazione dei poeti, per turbarla, per affascinarla con la tenera vivacità dei saluti, con la stranezza orientale delle parole, con lo scintillio degli specchi dei tuoi occhi e questo audace piedino… Tu sei nata per il languido amore, per l’ebbrezza delle passioni. Dimmi – quando il cantore di Leila disegnava nei sogni celesti il suo immutabile ideale, non te forse ha rappresentato il poeta dolente e caro? Forse, in una plaga lontana, sotto il cielo della sacra Grecia, te il sofferente ispirato ha conosciuto o visto, come in un sogno, e l’immagine indimenticabile non si è rinchiusa nella profondità del suo cuore? Forse con la lira felice l’incantatore ti ha sedotta; un tremito involontario è sorto nel tuo petto orgoglioso, e tu, chinata sulla sua spalla… No, no, amica mia, del sogno geloso la fiamma non voglio alimentare; a lungo la felicità mi è stata straniera, di nuovo ne posso godere, e, oppresso da misteriosa tristezza, ho paura: è insicuro tutto quello che amiamo”.
Dunque, la tragicità e il classicismo. Pirandello e Puskin.
Il senso di morte e il sottosuolo. D’Annunzio e Dostoevskij.
L’angoscia e la malattia mortale. Kierkegaard.
È proprio vero che la vita si vive tra la tristezza e la vacuità?
Siamo eredi della malinconia e questa letteratura che è vita non può che essere l’attraversamento di un singolare viaggio nel tempo e nella morte passando, comunque, tra le stanze della memoria.
Un riscontro esistenziale che precipita nella letteratura. Una vita nel precipitato letterario. È un importante percorso che ha attanagliato le anime inquiete e mai “anime morte” (Gogol).
(A cura di Pierfranco Bruni e Marilena Cavallo)