Leonida di Taranto
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Giorgio Caproni alla maturità 2017. Parto da una chiosa che può essere fondamentale, o meno. Ma si tratta sempre di una lettura che ha chiavi interpretative non insignificanti. Non bisognerebbe mai “improvvisare” una proposta di analisi di testo poetico di un libro apparso postumo.
Perché?

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Il postumo è postumo e non ha luoghi di ripensamenti sia sul piano metaforico che su quello letterario, soprattutto quando si tratta di un poeta come Giorgio Caproni che ha molto giocato con le varianti o i varianti.
Io che ho conosciuto molto bene Giorgio Caproni so come pesava una parola in un linguaggio articolato e complesso qual è quello dell’ermetismo surreale e metafisico.
Infatti non si discute, nella sua poesia, di reale, ma di surreale.
Nei miei servizi sulla Rai dedicati a Caproni ho avviato proprio sui “temi” metafora alcune discussioni. Appunto il mare. Ma per Caproni il mare non è ecologismo.
Mi sembra esagerato e fuori luogo far discutere i ragazzi sul legame Caproni mare ecologia. Si tratta di una visione abbozzata, viziata e poco appropriata sul piano della problematica poetica. Si può anche dialogare su ciò, ma diventa una forzatura considerata la poetica generale della metafora – gioco – morte in Caproni.
Il mare è il tutto di un viaggio interrotto. È anche il passaggio di Enea. È Rina, la madre della Livorno che butta nelle discese marine. È anche Livorno radicamento, Genova, il porto, le nebbie sui mari vissuti.

Quel “Quasi ecologici…”. Non ci obbliga e neppure ci indica una direzione. Il poeta è un rompitore di allegorie. Destinato ad essere il proseguimento ungarettiano, mai montaliano, Caproni, nato a Livorno nel 1912 e morto a Roma nel 1990 (vissuto per molti anni a Roma, io ho avuto la fortuna di conoscerlo a Roma e un mio libro porta anche un suo pensiero) è il vero poeta del Novecento della generazione 1912.
I versi di cui si dovrebbe impostare un’analisi (dovrebbe essere abolito questo riferimento dell’analisi: è come se si mettesse in discussione il poeta stesso, la poesia è altro rispetto alle analisi) sono tratti da “Res amissa” (un libro postumo) del 1991. Era stato curato da Giorgio Agamben, il quale si è occupato di estetica della politica e successivamente di estetica e filosofia. Quindi è naturale che la sua visione, un filosofo importante comunque, va oltre la letteratura e si intreccia in una comparazione che non è soltanto estetica, ma anche linguistica.
Agamben usa il linguaggio estetico della parola che diventa corpo.

Cosa significa una poesia non poesia di Caproni agli Esami di Stato? Bisognerebbe conoscere questo Caproni e non quello del 1936 e neppure quello di Virgilio del 1956 e tanto meno le ultime vere del 1988 “Allegretto con brio”.
Si corre il rischio, da come si è impostato il percorso, di dare un senso e un significante snaturante dell’opera di Caproni tanto da pensare che non interessa la poesia di Caproni, ma quella particolare poesia piegata sugli aspetti ecologisti che non si leggono nella loro pienezza perché il mare di Caproni, come ho già detto e scritto in diversi saggi, è il mare di un viaggio infinito che contrappone Enea ad Ulisse.
Già a pensare che il poeta chiama questi versi “versicoli” dovrebbe far riflettere sia sul piano critico che estetico. D’altronde Caproni era un poeta preciso nella vocazione verbale. Non può essere ristretto come un poeta dei versicoli. È un’immagine non bella che si offre alla poesia e al poeta.

Il poeta più complesso del Novecento ridotto in versicoli?
Un poeta che ha segnato un percorso fondante di quella Interlinea lirica che va da Ungaretti a Pavese, dal primo Quasimodo ad una cultura francese che trova riferimento in Boris Vian. Si pensi “Il franco cacciatore” del 1982 o allo scavante “Il Conte di Kevenhüller” del 1986.
Osservo con il pensiero di chi vive quotidianamente la letteratura e la poesia e credo che sia stato un brutto esercizio culturale quello di proporre un Giorgio Caproni con i versicoli ecologisti che sono stati soltanto un mero esercizio sulle parole.
Basterebbe impattare alcuni vocaboli per rendersi immediatamente conto di alcuni aspetti.
La prima parte è un recitativo quasimodiano. La seconda sembra raccogliere in versi una metafora di Folco Quilici. Non c’è poesia in questi versi. Questo è un dato scontato. Ci sono delle categorie sperimentali.
Non si può sacrificare un grande poeta come Caproni per rinchiuderlo in un minimalismo ecologista con un rimatura anche ironica. Mentre il suo sottosuolo è l’intreccio di allegoria, metafora e superamento del reale. Anche se la sua “canzonetta indurita” va oltre le complicazioni virgiliane, dantesche e baudeleriane.

Il Caproni religioso che si trova nel seguito di “Res amissa” è nicciano. La Grazia impossibile? Ecco: “Avanti! Ancòra avanti!»/urlai./Il vetturale/si voltò./«Signore,» mi fece. «Più avanti/non ci sono che i campi”.
No, non si propone una poesia quasi ecologista per intrecciare ciò che Carlo Cassola avrebbe chiamato uccidiamo il mare con un colpo di luna. Di un grande poeta bisogna sempre mostrare la bellezza della parole e l’estetica dei linguaggi.

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