Romano-Battaglia
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Sono stato amico di Romano Battaglia. È tra le pagine che restano sulla mia scrivania e sul filo dell’orizzonte tra il cuore e l’anima. Sono stato a Marina di Pietrasanta più volte. La Versiliana. Un antico detto Sufi dice: “Il cammino del fiume della vita è scritto nelle sabbie”.

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La sabbia può essere una metafora ma può anche raccogliere i segni di verità, di verità nascoste, di verità dimenticate e che misteriosamente e improvvisamente si rivelano, di angoli di verità che conservano frammenti di tempo. Ma la sabbia rimanda al deserto e il deserto ha bisogno del vento per catturare le onde della vita o per percepire il racconto della sublime nella vita.

Sono trascorsi due anni dalla morte di Romano Battaglia. Era nato a Marina di Pietrasanta il 31 luglio 1933. E’ morto a Marina di Pietrasanta il 22 luglio 2012.

Battaglia ha scritto lungo il viaggio delle Illuminazioni. Cito qui soltanto alcuni suoi romanzi. “Sabbia” (edito da Rizzoli). O il rimando è più strettamente diretto al deserto. Gli uomini del deserto non conoscono la solitudine perché sono fatti di solitudine e la solitudine non è sofferenza e tanto meno progetto dolori. Resta nella recita della vita. Credo che sia un romanzo importante. Non ci sono dubbi su questo: Romano Battaglia è uno scrittore vero che riesce a vivere la parola, il sentimento, l’emozione non con le costruzioni sintattiche ma grazie al contatto con quella vita che muore e rinasce sempre.

Allora cosa è questo “Sabbia”? raccontarlo? Ma io non racconto i romanzi. Non riesco a raccontare neppure i miei. Ma cerco soltanto di tracciare percorsi. Percorsi di pensieri che affollano il viaggio di una esistenza grazie a quei personaggi – fantasmi che si agitano nella mente e nel cuore. Personaggi o fantasmi (ma sarebbe la stessa cosa) che sono parte integrante dello scrittore, anzi sono un io narrante a volte mascherato a volte lacerato dalle finzioni a volte decifrato attraverso le parole che restano appese nel vento. Ebbene le parole di questo straordinario romanzo sono vento. Forse un po’ alla Dylan.

Non per caso ho citato un detto della cultura Sufi. Permea tutto l’immaginare del pellegrinaggio tra le parole del romanzo. Ed è così che si insiste: “Sotto la sabbia/è sepolto il mistero della vita,/fra le dune c’è il canto dell’universo./Chi non sa ascoltare,/chi non sa immaginare/è lontano dalla verità”.

“Silenzio”, da Rizzoli, vive in un suggestivo immaginario. Già di per sé pone insieme suggestione e immaginazione. La letteratura oltre la storia. La letteratura che resiste agli urti degli esercizi critici. Una lezione di stile. La lezione che necessita. La lezione di cui si ha bisogno. Bisognerebbe guardare a questa lezione per ritornare alla letteratura vera. E lo dico con una convinzione che va al di là dell’amicizia.

Un libro di una eleganza penetrante. Pagine di una bellezza straordinaria. Un io narrante che non si risparmia. Che scava nei centri dell’universo dell’uomo perché lo stesso linguaggio diventa destino delle avventure che vi si raccontano. Ma il personaggio fondamentale che mai si assenta è il tempo. Il tempo della pazienza e il tempo dell’attesa sono coralli nel filigranato dei giorni che camminano con noi. Si fanno onde nella malinconia dei ricordi. Ma la vita è impareggiabile come è impareggiabile l’amore che scorre tra le passioni e le tenerezze degli sguardi.

Non bisogna rincorrere, perdersi dietro i veli del vano, chiedere al vento l’immortalità. Ma fermarsi e riflettere sull’importanze di quel silenzio che restituisce nel presente la memoria e il futuro. Questo tempo non bisogna tentare di imprigionarlo. Non potremmo riuscirci. Sarebbe impossibile.

Un percorso tra personaggi e luoghi. Si intrecciano tra le malinconie e il far festa. Nostalgie antiche e giochi infiniti di ricordi. Così in Com’è dolce sapere che esisti (Rizzoli). Un romanzo che costituisce il seguito di un canto mai interrotto. I volti delle donne, i sogni e l’esistere creano percorsi nel cavo del cuore. Nel labirinto delle coscienze. E gli incontri sono un sentirsi, un ascoltarsi, un vocìo di sentieri nei quali la magia e l’incanto sono echi. Forse è tempo di ripensare a un progetto narrativo (dal punto di vista dei processi storici e teorici) che abbia come modello di base non solo una poetica, in termini di problematicità dei contenuti, ma soprattutto un linguaggio poetico.

La fedeltà all’amore, agli affetti. La fedeltà al cuore nello strazio del quotidiano perché nel quotidiano le cose si allontanano, si perdono, si allungano. “Mentre mi avvicino alla mia terra, sento una quiete profonda che mi dà la forza di riannodare il filo affettivo della mia vita”. Si ritorna. Sempre. Perché il vero richiamo è nell’amore e nella pazienza. Come ci recitano i versi di Madre Teresa di Calcutta: “Fino a quando sei viva, sentiti viva…/Non vivere di foto ingiallite…/insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni”.

Una profonda religiosità che lega i destini e ci incammina sui tracciati dei misteri. Il romanzo di Romano Battaglia “La strada di Sin” (Rizzoli) è un andare nel di dentro di quella magia – alchimia che ci fa rileggere la (nostra) vita all’interno delle esistenze che ci catturano, ci guardano, ci guidano.

E’ un grande romanzo della fedeltà e della speranza. Ma fedeltà e speranza sono un passaggio lungo i segni dell’attesa. Si vive tra i mari dell’attesa perché si passa sempre tra i fili di questo sentimento – visione. Bisogna cercare dentro di sé: “Se vuoi anche tu conoscere il destino e trovare la serenità devi cercare i valori che sono dentro di te”. Bisogna restare sempre se stessi. La magia della luna è un destino ma è anche il fascino di un viaggio dentro le memorie che continuano a vivere tra le pieghe del cuore.

Così: “Il destino si può sfidare soltanto rimanendo se stessi, anche quando la vita fa di tutto per crearci delle difficoltà e soprattutto si deve amare, sempre amare”. L’amore. Che cosa unisce il padre al figlio e viceversa? È la consapevolezza dell’amore. “La strada di Sin” continua l’intelaiatura che Romano Battaglia intreccia da avari anni nei suoi libri. Un linguaggio singolare. Si ritorna a casa quando si ritorna a se stessi restando fra le braccia del vento come recita, appunto, il suo libro del 2012 dopo aver scritto lo splendido un anno prima “L’uomo che vendeva il cielo”.

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