Mario Martone torna a parlare di Napoli come solo lui sa fare, portando al cinema il suo amore per il teatro. Lo fa confrontandosi con un mostro sacro di cui, ancora una volta, illumina le ombre piuttosto che tesserne le lodi. Come già in altre sue opere il registra mescola le carte, ribalta i piani e mette in discussione pregiudizi ed elogi; se nel “Il giovane favoloso” Leopardi viene strappato dal pessimismo polveroso e scolastico per cui molti lo conoscono e viene mostrato anche nel suo carattere ironico e impulsivo, in “Qui rido io” sulle luci della ribalta – in tutti i sensi – è Eduardo Scarpetta, nume tutelare e padre-padrone del moderno teatro napoletano, ideatore del personaggio di Felice Sciosciammocca che fu (o doveva essere…) l’erede della maschera di Pulcinella. “Qui rido io” più che un titolo è una dichiarazione di intenti, perché nella pellicola dedicata ad un genio della comicità lo spettatore ride poco e niente, mentre il protagonista se non si diverte, quanto meno si gode la vita tra relazioni extraconiugali, palazzi sontuosi e pranzi pantagruelici.
Un film di maschere e di volti
Martone ci immerge in un’opera quasi filologica, ci travolge con i broccati e le dorature degli arredamenti di palazzo Scarpetta, con l’opulenza delle sue donne e la miseria dei suoi attori, con le risate che strappa in scena ed i dolori che infligge nella vita vissuta.
Se Eduardo è l’idolo a cui tutti guardano, sono le donne di cui si circonda e che concupisce che lo sostengono e lo rendono tale: la moglie Rosa, con la sorellastra Maria e la nipote di lei, Luisa lo rendono padre, ma emerge anche la figura della piccola Titina che sboccia all’adolescenza e – come una nemesi – quella figlia di Iorio che lo porterà in tribunale.
Donne amate o usate? Una domanda su cui oggi ci si arrovellerebbe invano e che allora non aveva ragione di esistere; gli Scarpetta erano una famiglia allargata ed Eduardo si curava di assicurare a ciascuno pranzo, cena e lavoro ma – soprattutto – che tutta Napoli vedesse quanto fossero uniti e felici. Un Eduardo padre e padrone, che decideva chi e quando dovesse interpretare Peppiniello e quale figlio dovesse essere dato a balia, chi dovesse portare il suo cognome e chi essere bollato come figlio di N.N., chi di un monumentale sartù – intorno ad una ricca tavola, dovesse avere doppia porzione e chi solo tre polpette.
Napoli, non solo palcoscenico
Scarpetta e Napoli, un binomio indissolubile; ma potremmo affermare – un po’ didascalicamente – che Scarpetta è Napoli, con le sue contraddizioni, le sue malinconie, i suoi sberleffi, la sua rassegnazione e la sua voglia di riscatto.
Che si tratti di vicoli bui e bagnati dalla pioggia, delle strade piene del vociare dei ragazzini che inseguono una carrozza o delle colline che si affacciano sul golfo, la città si offre come palcoscenico ideale ma attira l’attenzione dello spettatore, magnetica e sfrontata come le popolane che spesso l’hanno rappresentata e di cui la Loren fu esempio inarrivabile.
Una Napoli pulsante di vita e di cultura, che produceva canzoni e opere teatrali, capitale nobile e ammasso urbano dolente e furbo dove il teatro poteva creare scandalo e rivoluzioni e canzoni e commedie facevano cultura.
Un Servillo ideale, ma non solo
“Qui rido io” non è solo un film con Servillo; è evidentemente un film per Servillo e di Servillo, in cui l’attore napoletano si immerge completamente, si identifica e dà anima e corpo al personaggio che interpreta, rendendolo un vero e proprio topos in cui riaffiorano evidenti la maschera di Totò (che peraltro interpretò Felice Sciosciamocca in tre pellicole di successo) e l’andatura di Charlot, a dichiarare senza retorica quanto importante fu Scarpetta.
Ma è altrettanto vero che “Qui rido io” è un film corale, in cui ogni attore cesella il suo ruolo in maniera perfetta ed efficace, rendendo il risultato finale molto superiore alla somma dei singoli addendi. Se Maria Nazionale da vita ad una Donna Rosa che accetta i tradimenti del marito ma lotta per il futuro dei figli e Cristiana Dell’Anna è una Luisa che oscilla tra amore ed adorazione per lo zio che la rende madre, Eduardo Scarpetta rende un Vincenzo efficace e credibile nel suo ruolo di figlio che edipicamente cerca il riscatto dal ed oltre il padre. Ma sono soprattutto i tre interpreti che danno corpo e parole a Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo a dare una prova di maturità artistica quasi incredibile rispetto alla loro età, aiutandoci a comprendere quelle che saranno probabilmente le radici – più o meno inconsce – di opere come “Filumena Marturano” o della insanabile frattura artistica ed umana tra i due fratelli.
Un film da vedere e rivedere
Come avviene con i capolavori dell’arte, una sola visione non è sufficiente. La prima ci farà apprezzare le prove d’attore, i dialoghi misurati ed efficaci, le scenografie perfette, le ambientazioni e gli abiti, ma nasce poi il desiderio di gustarsi ancora i particolari, quelli che – come nel caso di un buon vino – rimangono presenti dopo l’emozione del primo sorso: le occhiate ed i silenzi, i gesti e gli abbracci, le lacrime e gli scatti d’ira.
Un film attualissimo, nonostante l’epoca in cui è ambientato, per i conflitti e le relazioni che sono da sempre parte della storia dell’uomo, ma anche per argomenti più legati alla cronaca, come nel caso del dibattito – finito in tribunale – tra parodia e plagio o per il richiamo ad altre grandi pellicole come “Un giorno in pretura”, poiché l’orazione finale di Eduardo Scarpetta in difesa del suo “Figlio di Iorio” pare quasi una citazione letterale de “Il processo a Frine” con protagonisti De Sica e la Lollobrigida.
La sinossi del film
Agli inizi del ‘900, nella Napoli della Belle Époque, splendono i teatri e il cinematografo. Il grande attore comico Eduardo Scarpetta è il re del botteghino. Il successo lo ha reso un uomo ricchissimo: di umili origini si è affermato grazie alle sue commedie e alla maschera di Felice Sciosciammocca che nel cuore del pubblico napoletano ha soppiantato Pulcinella. Il teatro è la sua vita e attorno al teatro gravita anche tutto il suo complesso nucleo familiare, composto da mogli, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. Al culmine del successo Scarpetta si concede quello che si rivelerà un pericoloso azzardo. Decide di realizzare la parodia de La figlia di Iorio, tragedia del più grande poeta italiano del tempo, Gabriele D’annunzio. La sera del debutto in teatro si scatena un putiferio: la commedia viene interrotta tra urla, fischi e improperi sollevati dai poeti e drammaturghi della nuova generazione che gridano allo scandalo e Scarpetta finisce con l’essere denunciato per plagio dallo stesso D’annunzio. Inizia, così, la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia. Gli anni del processo saranno logoranti per lui e per tutta la famiglia tanto che il delicato equilibrio che la teneva insieme pare sul punto di dissolversi. Tutto nella vita di Scarpetta sembra andare in frantumi, ma con un numero da grande attore saprà sfidare il destino che lo voleva perduto e vincerà la sua ultima partita