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E’ sempre difficile commentare un romanzo di Alfredo Annicchiarico, e non certo perché manchino i motivi per farlo o gli spunti per lodarne la scrittura misurata ed attenta ai dettagli, che fa emergere come piccoli cadeau descrizioni illuminanti e dialoghi godibili.

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La difficoltà, almeno per chi scrive, è che chiusa l’ultima pagina di questo “Non sono io tutto” (Les Flaneur Edizioni), quando dopo la 267 c’è solo l’indice dei capitoli, la sensazione che rimane è quella di un momento compiuto e perfetto, a cui non c’è nulla da togliere e da aggiungere; un momento da gustare in silenzio come un buon brandy o un sigaro assaporato davanti alle crepitanti scintille di un camino in pietra.

Giunto al notevole traguardo del settimo titolo, Annicchiarico conserva con la scrittura un rapporto rispettoso e confidenziale come quello che noi over 50 (ma ancora under 60) abbiamo con uno zio poco più avanti con l’età: ci ridi, ci scherzi, ti prendi qualche licenza ma rispetti il limite e non ti sbraghi mai, anche se sai che potresti e nessuno ti rimprovererebbe.

Il bello dei romanzi di Alfredo (via gli imbarazzi posticci, ci conosciamo da più di metà delle nostre vite!) è che sfuggono dalle scorciatoie narrative e dai goal a porta vuota, cercando sempre un percorso originale ed una ambientazione che si nega ai cliche che per molti sono già un classico.

Parafrasando un suo commento sui social, Alfredo “fugge da Foggia”, trascura la “Puglia caput mundi”, si guarda bene dall’inzuppare il pane nel dramma tarantino che sembra essere diventato il nuovo mood nella narrativa serial televisiva ed aver preso il posto (horror vacui?) delle macerie lasciate dall’assalto “letterario” al Salento e alla pizzica. E così, se per tanti è la siderurgia assassina essere fonte d’ispirazione ed i vicoli della città vecchia ad essere location per partenopee investigazioni d’antan, Alfredo spazia nelle sue opere dal Galles di “Cadenza di inganno” alla Ferrara di “Tanto tra un po’ piove”, senza trascurare la Roma de “Gli imperfetti”.

E’ ancora Roma, insieme a Napoli e con qualche spruzzata barese ed alcune pennellate in salsa umbra a fare da palcoscenico ad una storia che appare come un quadro tradizionale cinese, in cui è fondamentale che chi l’osserva abbia occhi per vedere ciò che il pittore ha solo immaginato sulla porzione di tela lasciata bianca.

I miracoli che il tuo fratellastro avrebbe fatto e le passioni a cui non avrebbe dovuto abbandonarsi, gli alberghi che un abate non dovrebbe voler vedere costruiti, l’imparzialità che un anchor man televisivo dovrebbe garantire sono solo alcuni degli ingresienti che segnano una storia di uno e di tanti, di uno Zeno cantautoralmente caratterizzato a partire dal cognome (mi piace pensare – senza averne esplicita conferma o smentita – che Pavani richiami l’attuale borgo di gucciniana residenza), in cui De Andrè e Daniele vanno a braccetto con Count Basie e Billy Cobham, a punteggiare sinesteticamente la storia di un protagonista che accetta un po’ controvoglia il suo ruolo, che oscilla tra un essere un trombamico (ci si passi il gergo giovalinistico) troppo geloso ed un fidanzato troppo poco attento.

“Non sono io tutto” è un romanzo in levare, in cui il destino (o chi per lui) ti sottrae la donna a cui non riesci a dichiarare il tuo amore, l’amico a cui non sei riuscito a dedicare il tempo che avrebbe meritato, il fratellastro che non hai devvero conosciuto, i testimoni di una storia che è un po’ “Il segno del comando” ed un po’ “Uccelli di rovo” (tanto per ribadire l’età e le passioni di chi scrive).

Questo libro ci piace, e non solo perché lo ha scritto un amico; piace perché già nel primo capitolo difende le librerie (non gli store di libri, si badi bene!) e chi le frequenta, perché ti instilla curiosità come neppure il “Forse non tutti sanno che” della mai troppo lodata “Settimana Enigmistica” sa fare (che ci fanno le api liguri in una isola australiana?), perché con buona pace di Freud e psicoadvisor da social ti rivela che siamo tutti orfani di padri e di madri anche se i nostri genitori sono ancora vivi, perché ti consola rivelandoti quello che vorresti sentirti dire: che abbiamo tutti bisogno di protezione ed il nostro male ci duole di più di quello di tutto il mondo messo insieme.

La santità è un dettaglio di vita” afferma Zeno Pavani, e tu ti chiedi se si assurge all’onore degli altari per titanica volontà, fortunata predisposizione o banale mancanza di sufficienti tentazioni. Nel mentre cerchiamo una risposta che forse non troveremo mai (e non è detto che sia un male), Alfredo si occupa di fornirci un campionario di bellezza (a pagina 60, per chi abbia fretta di consultarla) che per essere apprezzato al meglio merita una vita vissuta e non una distratta occhiata su un motore di ricerca, pacca consolatoria alla mezza mazzata che arriva venti pagine dopo, quando si riflette sulle occasioni perse dai boomer nostrani, mai puntuali tra ’68 e ’77, l’ombelico della Carrà e le tette della Cansino.

Arriva il momento in cui ci si mette l’anima in spalle (citando una citazione di De Andrè) e ci si accontenta di un bicchiere di Barolo mentre cucini un sugo e ascolti il fruscio di un vinile che fa da eco allo sfrigolare della cipolla prima del dolce naufragio nella passata di pomodoro – refugium peccatorum (tanto per rimanere in tema) di molti attempati single per scelta loro o altrui, che trent’anni prima non vedevano l’ora di abbandonare casa ed oggi la difendono come una tana che malvolentieri dividerebbero con chicchessia per più di due notti di seguito, consapevoli di essere in bilico su un precipizio o sul bordo di una vasca da bagno, come nella bella copertina di Roberta Trani.

Alfredo ha scritto un romanzo che racconta di etica, di amicizia, di passioni e soprattutto di scelte, effettuate o negate, proprie o altrui, in cui ciascun lettore troverà qualche tessera del puzzle che compone la propria vita, in cui le assenze passate e future angosciano le presenze odierne, fin quando non scopri che “eravamo nati per aggiungere vita ai nostri giorni, e non per strappare sterili giorni alla vita” e giunti alla fine potremo forse anche noi affermare: “Non sono io tutto” ma consolarci con la certezza che comunque siamo quel che basta, soprattutto a noi stessi.

«Mi chiamo Zeno Pavani e ho qualcosa da narrarvi, mentre raccolgo la drammatica bellezza dell’orizzonte sdentato dalle ciminiere e avvolto da nuvolaglie che annunciano un imminente temporale»
(dalla quarta di copertina)

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