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Qualche settimana fa, ci interrogavamo sulla possibilità che la bellezza potesse salvare il mondo.

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Un interrogativo filosofico, un ghiribizzo retorico più che un dubbio amletico, che in questi giorni punteggiati da una cronaca che ci parla di morti, contagi e negligenze appare come una vera e propria ancora di salvezza per cercare di guardare ad un futuro – se non migliore – almeno possibile.

Il meraviglioso che ci circonda

Fortunatamente esiste un equilibrio nell’universo, e possiamo dire che – nonostante quello che sta succedendo – siamo ancora nella parte del mondo più fortunata: abbiamo cibo, abbiamo medicinali, abbiamo un tetto sulla testa, tutte cose che diamo per scontate ma che non lo sono per una gran parte di coloro che vivono anche solo a poche centinaia di chilometri da noi.
Per affrontare un po’ meglio lo sgomento che questa epidemia ci causa può essere utile ed opportuno guardarci intorno, immergerci nella bellezza della natura, lasciarci trasportare dallo straordinario che ci circonda e che troppo spesso non riusciamo più a vedere.

Una straordinaria canzone cantata da Domenico Modugno invitava l’ascoltatore a rendersi conto di quante meraviglie circondassero anche la vita apparentemente più sfortunata.

La bellezza è negli occhi di chi guarda

Certo, a tanti di noi oggi è richiesto di rispettare il distanziamento sociale, di non uscire di casa se non è indispensabile, di rimanere separati dagli affetti più cari, di rinunciare ad abitudini consolidate.

Ma abbiamo una finestra da cui ammirare lo spettacolo di un tramonto, possiamo aprirla ed ascoltare il canto degli uccelli o il profumo della primavera, oppure possiamo usare il nostro computer o il nostro smartphone per conoscere meglio paesi lontani o scoprire qualcosa di nuovo sulle tradizioni della città in cui viviamo, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.
Continuiamo a parlare di bellezza, perché dobbiamo essere consapevoli che se non apriamo davvero gli occhi della nostra anima, nulla di quello che guarderemo potrà mai essere davvero visto.

La mia giornata oggi è cominciata con un breve messaggio e la immagine di Cira Lacorte, che ha condiviso – come fa spesso – uno dei tanti scorci del centro storico che incontra nel suo tragitto da casa al posto di lavoro. Una immagine semplice, quasi banale a prima vista, ma che consente – a chi lo voglia davvero – di scoprire molte cose che forse non conosceva.

Un fiore, tanti significati

Il fiore in primo piano è una Calla, e come tutti i fiori ha un significato particolare, anzi – più di uno!

Il suo colore candido lo rende una presenza quasi fissa negli addobbi floreali in occasione di matrimoni, per esprimere il candore e la purezza dei sentimenti degli sposi, ma capita anche di vederlo nei funerali, accompagnare il feretro di una persona giovane scomparsa prematuramente. In altre occasioni, quando regalato ad una donna, esprime chiaramente cosa pensiamo di lei (quindi attenzioni a non fare gaffe!): l’amore puro se il fiore è bianco, un sentimento più passionale se il fiore ha striature rosse, se vogliamo esaltare la femminilità di colei a cui doneremo il nostro fiore la più adatta è una calla rosa, mentre una calla viola è testimone dell’eternità e proprio per questo accompagna spesso i funerali.

Un fiore simile, come molti altri, non poteva non essere legato a miti e leggende, ed infatti – nella mitologia greca, la calla sarebbe nata da alcune gocce di latte materno cadute dal seno della dea Era, divinità della Terra e della procreazione, leggenda che spiega il suo simboleggiare femminilità e prosperità. I romani invece, più che dal suo colore furono ispirati dalla sua forma, e gli attribuirono un significato esplicitamente erotico, vedendo nel fiore la raffigurazione sia dell’organo sessuale femminile (la corolla) che di quello maschile (lo spadice centrale). Un fiore tanto bello da aver destato addirittura l’irritazione di Venere, che per questo lo maledisse.

Ed è proprio alla sua bellezza che questo fiore deve il suo nome: infatti “Calla” deriva dal greco “Kalós“, ovvero “bello”, dimostrazione della veridicità del motto latino “nomen omen” ed un particolare che lega un po’ di più questo fiore a Grottaglie.

Non tutti forse sanno che la presenza del Gallo rampante in tante ceramiche grottagliesi è dovuta proprio a questa omofonia; se da un lato il gallo è da sempre un animale dalla ricca simbologia, ed è quindi ospite privilegiato di quei decori che attraverso animali come lupi, cani, leoni, volpi e draghi vogliano esprimere qualità o difetti mani, dall’altro pare proprio che sia stato una sorta di travisamento tra termini di origine greca (ancora oggi presenti nel dialetto, si veda ad esempio “vastaso”, “trappeto” e tante altre) e così piace pensare che qualche committente importante, o forse proveniente dalle zone del Capo di Leuca dove ancora si parla il Griko e con cui il Salento ionico aveva costanti scambi economici, abbia chiesto ad un figulo locale un piatto “kalòs”, ovvero bello, riccamente decorato, forse per regalarlo a qualche personaggio importante o per abbellire la sua casa, ed il ceramista grottagliese abbia equivocato o giocato volutamente sul suono delle parole, dando inizio ad una tradizione che continua ancora oggi.

Così il gallo fu protagonista della querelle che a nel 2008 animò le discussioni dei grottagliesi, divisi tra favorevoli e contrari al murales che si affacciava sul quartiere delle ceramiche ed è ancora oggi a fare buona guardia sull’operato dei decoratori, grazie alla installazione che espone le decine di pannelli riportanti le diverse interpretazioni del gallo realizzate da artisti grottagliesi.

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