E’ una domanda impegnativa, quella del titolo. E – come tutte le domande impegnative – forse non ha una risposta e forse ne ha tante quanti sono coloro che si provano ad affrontarla.
Ci confrontavamo l’altro giorno con alcuni appassionati interlocutori, pur con tutti i limiti (ma anche i vantaggi!) che il mezzo virtuale permette. L’argomento della discussione era una precedente riflessione in cui auspicavo una maggiore capacità di tutti noi nel riscoprire il bello che ci circonda al termine di questa emergenza che impatta pesantemente sulla vita di tutti noi.
Pessimismo della ragione Vs. ottimismo della volontà
Da una parte il professor Elio Francescone, che amaramente affermava che “la Storia è una ottima maestra ma ha allievi svogliati” ed esprimeva tutta la sua perplessità sulla possibilità che quanto da me auspicato avvenisse davvero, dall’altra la signora Cira Lacorte, che da tempo – insieme ad altri encomiabili volontari – spende tempo, denaro ed energie per abbellire il centro storico con fiori, piante e pittura.
Come nel classico simbolo del Tao orientale, anche nel pessimismo del professor Francescone albergava ben più di un pizzico di speranza (altrimenti non si spiegherebbe la sua quotidiana missione di proposta di storie e tradizioni del nostro territorio) così come l’ottimismo della signora Lacorte era screziato da una vena d’amarezza per gli atti inconsulti degli incivili che spesso in pochi attimi vanificano il lavoro di giorni.
A chi conviene?
“Cui prodest?” amavano chiedersi i nostri padri latini, “A chi conviene?” è una domanda che ci facciamo in tanti, a volte con sincero stupore ed a volte con malcelato sarcasmo. Ce lo chiediamo quando leggiamo la storia di chi giovanissima, come Emilia Orlando, lascia gli affetti più cari per prestare soccorso a chi sta affrontando una pandemia e viene ricambiata da ostilità e offese quando torna a casa; ce lo chiediamo quando cogliamo la passione che trapela dalle parole da chi svolge la sua missione quotidiana a favore di bambini autistici, andando ben aldilà degli obblighi imposti dal contratto lavorativo; ce lo chiediamo quando assistiamo all’operato quotidiano dei tantissimi – medici, infermieri, farmacisti, operatori della nettezza urbana, cassiere dei supermercati, operatori delle forze dell’ordine e volontari di associazioni private – che cercano di continuare il loro lavoro nelle tante difficoltà di questo periodo, aggravate dal menefreghismo e dalla arroganza di chi crede che tutto possa e niente debba; ce lo chiediamo quando leggiamo di sterili polemiche in cui il voler essere meglio di qualcuno porta a negare il bene fatto dagli altri.
E ce lo chiediamo quando leggiamo di chi è venuto dall’altro capo del mondo per aiutarci e delle troppe storie di miserrima burocrazia italica che per un cavillo bloccano opere indispensabili; ce lo chiediamo quando sentiamo spiegare da Gino Strada quanti ospedali potremmo costruire con i soldi spesi per un solo aereo da guerra; ce lo chiediamo quando ci ricordiamo cosa abbiamo fatto per l’Albania trent’anni fa e dieci anni prima per i “boat people” nelle acque del Vietnam.
Ce lo chiediamo e – appunto – non troviamo risposta, oppure ne troviamo tante, alcune piacevoli ed altre meno. Ciascuno in quella risposta trova e riflette sé stesso; chi scrive – anni fa – si ritenne ampiamente ripagato dal commento di un bambino che osservava il lavoro di pulizia di alcune aiuole pubbliche, altri le cercheranno altrove, ognuno dove ritiene più opportuno frugare, forse – come afferma il Vangelo gnostico di Tomaso – rimanendo commossi e turbati quando avranno trovato.
A seminar bellezza
Non esiste LA risposta, esista una risposta, che cambia per ciascuno di noi e per ognuno di noi quella di oggi non è detto sarà quella di domani. E allora perché facciamo quello che facciamo? Perché ci ostiniamo a “seminare bellezza” convinti – come il principe Miškin ne “L’Idiota” di Dostoevskij – che salverà il mondo? A me piace pensare che mentre proviamo a salvare il mondo salviamo la nostra anima, perché – al pari del principe Arjuna nella “Bhagavad Gita” – il nostro agire deve essere mosso dalla consapevolezza di un dovere verso noi stessi liberamente assunto piuttosto che dal desiderio di una qualsiasi ricompensa materiale concessa da altri; perché un giorno potremo abbandonare questa esistenza terrena consapevoli di aver fatto il possibile per lasciare questo mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato; perché solo così facendo potremo alzare gli occhi al cielo e godere dello spettacolo che ogni giorno ci appare davanti agli occhi – uguale ma diverso – come nella immagine che correda questo articolo, scattata dalla signora Cira Lacorte.
La risposta, infine, è che il nostro fare è poca cosa se rimane fine a sé stesso, ma può essere il mattone che – insieme a quello di tanti altri – alza un muro poderoso e imponente, come insegna la parabola buddista del pappagallo che voleva salvare la foresta.
“In un boschetto di bambù, alle falde della catena himalayana, viveva una volta un pappagallo, insieme a molti altri animali. Un giorno che soffiava un forte vento, due bambù, per ripetuto sfregamento tra di loro, sprigionarono scintille che mandarono a fuoco l’intero boschetto. Una gran confusione regnava fra gli animali terrorizzati. Il pappagallo provò pietà del panico e delle sofferenze dei compagni, ma anche gratitudine per le gentilezze ricevute in quell’ospitale boschetto di bambù. S’impegnò con tutte e sue forze a cercar di salvare tutti. S’immerse in uno stagno lì vicino e si mise a svolazzare sul fuoco, scuotendovi sopra gocce d’acqua nell’intento di spegnerlo. Fece così più volte con un’attenta cura, nata dai suoi sentimenti di pietà e di gratitudine per il boschetto.
“Che cosa stai facendo? Non vedi che la foresta si è incendiata?” domandò la scimmia. “Sì,” risponde l’uccellino – Ma sto portando nel becco alcune gocce d’acqua, per spegnere il fuoco.” La scimmia scoppia a ridere: “Uccellino scemo e presuntuoso. Come puoi spegnere quel fuoco con poche gocce d’acqua?”. Anche il dio Indra, scese dal cielo e lo interrogò: “Sei coraggioso, ma che cosa speri di ottenere lasciando cadere così poche gocce d’acqua su un incendio tanto vasto?”. Il pappagallo rispose: “So che da solo non posso fare nulla. Ma sto facendo la mia parte; se tutti gli altri animali seguiranno il mio esempio, riusciremo a dominare le fiamme e a salvare la nostra foresta.”
Il grande dio Indra rimase così colpito dalla determinazione del pappagallo che decise di aiutarlo scatenando un temporale. Così, tutti e due insieme, spensero il fuoco.