Negli anni ‘80, New York ha indossato due volti. Da un lato, quello rampante di una classe dirigente in ascesa economica e professionale e protagonista spietata del sogno americano; dall’altro, quello afflitto, bandito ai margini, di uno strato sociale costretto a sopravvivere alla giornata.
L’America del decennio Reagan abbraccia uno stampo conservatore che a poco a poco smaschera le proprie ipocrisie: carriera perfetta, famiglia perfetta, solida scala di valori. Un’esistenza invidiabile agli occhi di chiunque non la possieda. Ma il sorriso è tirato, c’è una ruga sulla fronte; la vita è da favola, sì, ma solo perché non è la realtà.
È in questo duplice scenario che Pose immerge gli spettatori fin dal primo istante; tra Manhattan e il Bronx; tra la luce dei riflettori e il buio di chi sul palco non salirà mai. La storia che racconta non è inedita, sempre su Netflix è disponibile anche Paris Is Burning, leggendario docu-film a cui la serie si ispira. Ma a raccontare New York e la sua cultura underground, è questa volta Ryan Murphy, mente geniale dietro Glee, Nip/Tuck, Mangia Prega Ama e L’Assassinio di Gianni Versace. Un Re Mida dal tocco infallibile, che non sbaglia neanche questa volta.
I prodotti Netflix più recenti hanno alzato l’asticella delle aspettative, fra produzioni candidate agli Oscar e attori pluripremiati prestati al mondo dello streaming online. Pose rientra alla perfezione in questo nuovo filone cinematografico, raccontando la lotta, personale e collettiva, della comunità LGBTQ+ in un contesto storico e sociale che nega a chi ne fa parte ogni forma di diritto e dignità, costringendol* a condizioni di vita durissime. La soluzione? Trovare rifugio in piccoli nuclei che diventano la loro famiglia. Un paio di notti a settimana, per qualche ora, frustrazioni e sofferenze lasciano spazio alla magia delle ballroom, palcoscenico queer di talento e riscatto. Nell’arco di otto episodi, Pose sviluppa un percorso di caduta e redenzione in cui moderni Misérables compensano stati di miseria economica con un’inarrivabile ricchezza d’animo.
Per quanto la tendenza narrativa sia prevalentemente orientata in positivo, non Pose non gioca sui cliché (è presente il Voguing, ma non in maniera caricaturale), e il buono non stucca in melenso: da impossibili, i sogni dei protagonisti pian piano si avvicinano al lieto fine, ma non senza fare i conti con il rischio a ogni ostacolo di finire di nuovo in strada. La brutalità del reale è presente, la piaga dell’AIDS anche, sino a divenire elemento consistente nel quotidiano di Blanca, Damon, Angel e Ricky, che condannano continuamente un sistema programmato per dimenticarli, e lo fanno con una certa amarezza e consapevolezza di fondo. Perdono amici e compagni a causa di una malattia ancora poco conosciuta dall’universo scientifico, carente di strutture e soluzioni che ne frenino la diffusione impazzita. Si scoprono affetti dal virus a loro volta, scegliendo di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, ma terrorizzati di finire abbandonati in ospedali popolati da fantasmi, come accaduto ai loro cari.
Oltre alla testimonianza sociale, Pose stupisce perché ricca di momenti d’intrattenimento e per la capacità di racconto corale che mette in campo: ci sono caratteri principali e secondari, ma il profilo di ognuno evolve in modo completo, quasi come in un filmato di repertorio che ne documenti la vita. Ci sono gli albori della fortuna di Trump, che nella sua omonima Tower ospita squali della finanza disposti a tutto pur di farcela. Ci sono le ballroom, in cui famiglie rivali si affrontano sfoggiando outfit ricavati dagli scarti, ogni settimana cimentandosi in una nuova sfida sulle note dei successi pop del periodo.
All’incanto dei lustrini si unisce la consapevolezza che la meraviglia duri una notte, attimo fuggente in cui poter essere qualsiasi cosa si desideri e venga, fuori da quel sotterraneo, negato essere. L’Executive Manager Realness, ad esempio, è la categoria in cui sfilare indossando doppiopetto e tailleur, immaginandosi ai piani alti di un grattacielo a Downtown mentre ci si gode lussi accessibili solo alla classe bianca borghese.
Riprendendo liberamente le vicende narrate in Paris Is Burning, nella serie ogni Casa ha al suo vertice una Madre, capostipite di una discendenza che prende il suo cognome e ne prosegue il prestigio – per citarne alcune, maestose la House of La Beija e la House of Xtravaganza. Non un legame biologico, ma di solidarietà e aiuto verso giovanissimi soli al mondo, adolescenti allontanati dalle famiglie di origine. Anti-eroi, sex worker, senzatetto che hanno perso l’illusione, ma non il senso di appartenenza ad un luogo in cui ognuno è identico, perché straordinario.
Nella sottotitolazione in italiano, grande cura è prestata a non usare pronomi personali maschili o femminili, optando piuttosto per alternative neutre (“tutt*”, “qualcun*”). Il dettaglio è fondamentale, quasi rivoluzionario, all’alba di un’epoca in cui parlare di fluidità di genere e non binarietà comincia a essere la norma e non l’eccezione da tomo universitario sull’identità sessuale. In un dibattito sul tema sempre più all’ordine del giorno, è importante conoscere l’azione politica e la valenza culturale delle ballroom come simbolo di affermazione e rivendicazione, opera di un nucleo soprattutto ispanico e afroamericano che in tal modo ha reso evidente il proprio essere al mondo.
Celebrare con orgoglio la propria esistenza è un concetto trasmesso anche indossando abiti strabilianti contro la repressione dei costumi, lasciandosi giudicare da una platea di pari che rinnega la violenza, professando l’amore. Lottare per l’accettazione è un aspetto che ha fortemente connotato la storia della comunità gay: “We are everywhere!”, infatti, è il motto gridato dai manifestanti durante i Moti di Stonewall del 1969, storica data di scontri fra polizia e movimenti omosessuali. L’arma con cui vincere metaforicamente è l’unione, la comprensione dell’altro, nonostante la scena vouguing sia competitiva per eccellenza, basata sullo shading altrui. Non è un caso che i Balli richiamino la spiritualità delle celebrazioni religiose, riunendo figl* che nella carità e compassione hanno trovato una seconda occasione. Il personaggio di Pray Tell, ad esempio, direttore d’orchestra della notte, evoca quello di un pastore che chiama a raccolta i suoi discepoli.
Infine, Pose può vantare anche un altro nobile merito: il cast della serie include quasi interamente interpreti LGBTQ+, coinvolgendo artist* transgender che nella vita privata hanno vissuto esperienze analoghe ai propri alter ego sullo schermo. Il tema della transizione è toccato con intensità e delicatezza, consentendo di esplorarne tappe e difficoltà. Doveroso menzionare, inoltre, una denuncia coraggiosa nel portare a galla la contraddizione che vede persone transgender trattate come una minoranza nella minoranza (Blanca, Madre della House of Evangelista, viene ripetutamente cacciata da un bar gay della città presentandosi come donna transessuale). Emerge l’impossibilità di intraprendere una professione diversa da una qualsiasi nel mercato sessuale, o di godere di un’indipendenza economica che non sia frutto di una figura da cui farsi mantenere, sacrificando il bisogno di essere se stess* (Elektra Abundance, rivale di Blanca, mette in dubbio i suoi progetti per l’uomo che le consente uno stile di vita sicuro).
Arrivati al termine dell’ottava e ultima puntata, ci si accorge che la vittoria di Pose è quella di instillare curiosità in chiunque approcci avvenimenti e personaggi della storia LGBTQ+ per la prima volta; avvicinare i più giovani al tema e confermare le attese di chi desiderava venisse espresso nel modo giusto. Questa serie assolve al dovere di informare ed educare al rispetto, senza crogiolarsi nel drammatico; il punto di vista sugli accadimenti conserva la speranza. Una frase pronunciata nell’episodio pilota potrebbe sembrare un semplice diletto di sceneggiatura, ma offre una chiave di lettura estremamente sensibile verso chi affronta un cambiamento di identità: “la fortuna più preziosa di non riconoscersi in qualcosa di già dato è quella di potersi creare completamente da sé.”
Approfondendo il passato, Pose spiega le conquiste che hanno reso possibile il presente. Le sfilate dei Club Kids, l’estetica di Amanda Lepore e l’attivismo di Sylvia Rivera hanno fondato il terreno su cui oggi artisti come Anonhi, Mykki Blanco, Arca, si presentano al mondo nell’assolutezza del proprio essere, privo di canoni prestabiliti e lontano da stereotipi ormai superati. Può una serie online impartire una lezione di uguaglianza? Sì, con l’umiltà di ricordare quello che è stato, per formare coloro che sono e saranno.