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Nel “Piccolo Budda” Gita dice: “Non occorre andare altrove quando c’è tanta bellezza intorno a te”. Un viaggio per cercare il centro. Ha fatto del cinema uno scavo nella letteratura. “La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista”, dal film di Bernardo Bertolucci dal titolo “Il tè nel deserto” , tratto dal romanzo omonimo di Paul Bowles. Una frase che non smette di accompagnarmi e vive dentro la mia vita come carezza e graffio.

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È morto Bernardo Bertolucci. Era nato a Parma il 16 marzo del 1941 e morto il 26 novembre del 2018. Ha rappresentato un punto di riferimento importante nell’ambito di una cinematografia che ha raffigurato il pensiero complesso. Ideatore di una filmografia che ha posto accanto alle immagini, dotate di una propria unicità e peculiarità, il sentimento delle parole, dei dialoghi, del pensiero in una visione storica in cui le chiavi di lettura possedevano una vastità di modelli. Modelli che hanno rappresentato, anche in letteratura, un dato metaforico e allegorico. Amico di Pasolini, (il quale dedica a Bernardo alcuni versi) è dentro la letteratura degli anni della sperimentazione.

Ho conosciuto molto bene il padre di Bernardo, Attilio Bertolucci. Mio caro amico, straordinario poeta di una generazione che ha traghettato il Novecento letterario verso le poetiche moderne. Anche il figlio Bernardo è stato un poeta che ha lavorato sulla parola, sui linguaggi, su quella contraddizione divenuta ambiguità alla fine del Novecento cinematografico e letterario. Una enigmaticità espressione del gioco tra personaggi e destino nell’avventura di un percorso identitario.

Il suo capolavoro “Piccolo Buddha” (1993), punto di riferimento nel cinema mondiale, ha simboleggiato un aggancio interpretativo nel mondo buddista mediante un legame tra la cultura occidentale e quella orientale. Dice il Lama Norbu : “Nessuna stanza è veramente vuota, se la tua mente è piena”.

Due modelli di civiltà espressi attraverso la figura dei personaggi, i cui costumi e il cui linguaggio hanno riprodotto il dato essenziale di una dimensione dove il cinema non ha soltanto fornito un tangibile segnale di una visibilità in cui il senso del tempo-spazio si è coordinato all’interno della metafisica degli incontri, ma ha anche offerto la possibilità di donare una capacità di ascolto in cui la contemplazione è stato il risultato di un colloquiare divenuto modello storico. Storia e processi culturali concepiti come identità.

Nello scavare tra immagine e immaginario, nel “Piccolo Buddha” Bertolucci ha rappresentato il vero senso. Si deve riconoscere alla sua filmografia la capacità della conoscenza nella consapevolezza del dato profondamente scavato nei saperi. Un “cinema del sapere”, quello di Bertolucci, in cui ogni sguardo, sia in campo lungo, medio e corto, ha segnato l’intelligenza del regista e quella degli attori che hanno costituito il cerchio intorno al quale il film diventa vissuto e si concretizza come tale.

Legata direttamente alla letteratura è gran parte della sua ricerca cinematografica. Bertolucci ha sempre dimostrato di avere un legame molto forte con la letteratura ad iniziare da “Il conformista” del 1970. Un grande innovatore che ha rischiato un modello di cinema che avrebbe caratterizzato gli anni successivi. Mi riferisco a ”Ultimo tango a Parigi” del 1972 e, prima ancora, a “Strategia del ragno” (1970). Qui si va alla ricerca di una verità? Gaibazzi rivolto al figlio Athos Magnani, nella “Strategia del ragno” sussurra: “Vuoi sapere la verità… tuo padre diceva che la verità non significa niente. Quello che conta sono le conseguenze della verità”.

Credo che con “Ultimo tango a Parigi” si concluda l’ultima fase del suo scavare all’interno del linguaggio cinematografico e colloquiante in quanto, immediatamente dopo, con “Novecento” (1976) si assiste al cammino epocale di un cinema che è diventato storia popolare e mondo contadino e interpretazione in cui l’attraversamento di epoche ha segnato il passaggio ideologico a una metafora profondamente letteraria, scavata nel mito e nella letteratura.

Espressione di questo percorso è il film “La luna” del 1979. “L’ultimo imperatore” (1987) va inserito, a mio avviso, all’interno di questa dimensione scenica in cui la storia diventa dramma, tragedia ma anche ironia, così come un altro capolavoro cinematografico di Bertolucci, “Il tè del deserto” del 1990.

L’attitudine a scavare in una drammaticità che diventa ironia ha fatto di Bertolucci un regista a tutto tondo nel quale la parola veniva “scavata” in modo poetico, come sottolineava suo padre Attilio, un poeta che proveniva dalla scuola ungarettiana. Nel 1996 Bernardo Bertolucci pone l’accento su una ricerca tutta interiore con “Io ballo da sola” e, successivamente, con “L’assedio” (1998) e “I sognatori” del 2003. Proprio in questo film si ascolta “I sognatori”, ovvero “The dreamers”, questo dialogo: “Matthew : ‘Non uscivamo quasi più di casa ormai. Non sapevamo né volevamo sapere se fosse giorno o notte. Era come se stessimo andando per mare, lasciando il mondo lontano, dietro di noi’. Isabelle : ‘Lo sai cos’ha detto qualcuno? Che non esiste l’amore. Esistono soltanto prove d’amore. Tu sei pronto a darci una prova del tuo amore?’”.

È presente un passaggio epocale all’interno della filmografia di Bertolucci a cominciare dal 1962 con “La commare secca” e con “Prima della rivoluzione” del 1964. Tutto questo vissuto diventa un vero e proprio modello in cui il concetto di apocalisse diviene rivelazione, sia da un punto di vista linguistico che cinematografico.

Per questi motivi ritengo che su Bertolucci sia necessario avviare un dibattito forte per comprendere il cinema della seconda e terza fase del Novecento e per cogliere il senso di una identità letteraria che si è rapportata con il cinema. È evidente che letteratura e cinema in Bertolucci costituiscono un percorso importante, in cui il dialogare diviene unicità di senso, ma anche di sentimento.

Sempre dal film citato in incipit nel monologo finale si legge:

“Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio? Un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita, forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite”.

In fondo la vita resta un deserto dove è possibile sorseggiare un the! Tutto questo perché bisogna impegnarsi, come si ascolta da Jeamme in “L’ultimo tango a Parigi”: “Trasformeremo il caso in destino”.

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