Le radici di un uomo sono le identità che non si spezzano. Le identità e le appartenenze non sono “visioni” esistenziali”. Sono una eredità che resta e che non può essere scalfita. L’eredità che è fatta di sangue, di luogo e di tempo. Questa non può essere contaminata. Forse è l’unico paesaggio dell’anima che non può essere contaminata. Ha una suo religiosità legata proprio ai tre aspetti appena citati. Il tempo resta tempo della memoria. Il sangue è il DNA tra padre e madre nella terra del cuore. Il luogo è ciò che si è abitato quando quel luogo lo si viveva come fisicità e stanza del proprio essere. Aspetti che non temono alcuna contaminazione perché sono il potere del proprio spazio che si trasforma in archetipo.
Gli archetipi non temono le contaminazioni. Chi ha volutamente dimenticato la propria storia ha strappato un passato nel vento, ma che resta ben definito e documentato. Il problema è un altro. Chi dimentica perde la speranza del futuro ed escludendo la speranza condanna il futuro proprio, ovvero il proprio futuro, al nulla. Bisogna abitare le civiltà per penetrarle.
Soltanto la letteratura ci propone una tale chiave di lettura. Chi insiste nel dare un senso ideologico alla cultura popolare osserva con gli occhi bendati la vita dei popoli, quella vita che intreccia i dati archeologici, etnolinguistici, demologici. Una antropologia deve non perdere di vista il senso dell’umanesimo. Noi siamo eredi di una metafisica dell’anima nella quale mito e sacro si intrecciano. Siamo figli della grecitá e dentro la cristianità. Il mondo romano – latino resta ‘schiacciato’ tra filosofia e teologia.
L’antropologia dell’umanesimo è appunto, una metafisica che si confronta, costantemente, con la filosofia che riesce a leggere la griglia degli archetipi che si esprimono in un vissuto di simboli. L’antropologia se non invita al viaggio della poesia dell’anima non ha senso. Mediterranei greci ed arabi un incontro che richiama radici in una Mesopotamia dei mari.
Credo che Pirandello e Pavese siano ancora al centro di una lettura pienamente antropologica. Di quella antropologia che pone al centro non le cose ma l’uomo, non i luoghi soltanto ma i popoli, non le idee come mascheramento di un pensiero, ma il pensiero come espressione di una testimonianza di vissuti.
Siamo oltre Ernesto De Martino. Il folclore oggi è tradizione e la tradizione è identità nella volontà della appartenenza. Le radici di un popolo sono la Appartenenza. È disastroso affermare che i limiti e i confini sono visioni superate. Bisogna difendere il senso di Nazione e di identità perché soltanto così si difende una civiltà.
Le contaminazioni, in una lettura antropologica, vanno lette senza creare confusioni e intrecci e la diversità esiste. È fondamentale. Ciò che una volta si chiamava “meticciato”, che non si smantella con un colpo di vocabolario politicamente corretto o scorretto, esiste come forma di intreccio e di diversità soprattutto in una visione mediterranea. Attenzione.
Noi non siamo un ‘paese’. Siamo una Civiltà e una Nazione. Il concetto di Civiltà è un primato della civilizzazione. Siamo una Patria. Siamo figli di un Pater – Luogo – Eredità –Appartenenza. L’antropologia filosofica, sulla quale mi applico da decenni, diventa sempre più una filosofia dell’anima di un popolo, ovvero una geografia dell’anima nei luoghi e nella percezione delle metafisiche. Il cammino da compiere non è soltanto quello del recupero dei materiali, ma anche quello del pensiero attraverso il quale una civiltà forma la propria esistenza. Essere civiltà è essere esistenza di un pensiero mai unico. Bensì divergente. Essere Civiltà è avere il senso della conoscenza della paternità di una Terra.
Le carrube sono il mondo della favola. La realtà che smette di esistere per farsi favola fiaba leggenda. Siamo figli di queste eredità. Quando ero ragazzo, anzi quando si diceva
c’era una volta… o forse cera u a volta in paese veniva un signore con l’asino ed le sporte ricolme di carrube e piretti e mio padre, sapendo i miei gusti, acquistava sempre sia carrube e piretti… Poi piantó degli alberi nel giardino e sono ancora lì… Io distratto dalla vita da grande mi ero dimenticato di ciò…
Quando ha preso il viaggio mi ha raccomandato di badare a queste piante… Sono diventato un custode dell’albero di carrube che riportano alla mia infanzia e a mio padre…Il mio interesse per l’antropologia cominciò dalle carrube… ovvero dal C’era una volta… Il tempo passa e la nostalgia racconta… Ora nella stanza del mio ufficio, del mio studio non mancano mai le carrube… e anche i piretti.
La vita è sempre un avvolgere di emozioni e di memoria. Emozioni e memoria sono parte integrante di un atropos che richiama la centralità della propria identità. Conoscere la propria appartenenza per capire cosa possa significare contaminazione. Questo è, a mio avviso, il vero significato di una antropologia dell’umanesimo. Se nel mio giardino ci sono le carrube e piante di Feijoa, significa che è un giardino contaminato?