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Noi Occidentali siamo figli dell’Oriente e del mondo arabo. Non tanto per tradizioni che inchiodono riti, usanze, costumi, koiné linguistiche di appartenenze. Non tanto perché siamo discendenti dell’Enea figlio di Troia e quindi Turco. Non tanto perché abbiamo una debolezza per l’ozio, l’attesa e la nostalgia. Perché si insiste nel dire che siamo eredi del mondo Greco e di quello Latino successivamente. Dobbiamo cominciare a porci delle domande serie sul piano antropologico. Perché, pensate un po’, ci dicono ancora che Platone è dentro la nostra cultura? È una grande cazzata. Piuttosto Socrate, ma neppure. Non abbiamo filosofi di riferimenti se non la cultura araba.

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Luigi Pirandello (1867 – 1936) lo aveva ben capito compilando la sua tesi laurea discussa a Bonn nel 1891: “Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti” . Pirandello, cosa possano pensarne gli antropologi di mestieri mi interessa poco davanti ad una evidenza plateale, fu il primo antropologo che capì le vere origini di un Occidente tutto orientale e legò la tradizione greca a quella araba e la danza sufi a quella balcanica.
Dopo Pirandello tutte le scuole etno – antropologiche hanno cercato di fare scienza sino a pensare di aver riscoperto la cultura popolare – contadina con Ernesto De Marino (1908 – 1965, soprattutto con il Sud e magia) e il “familismo amorale” dell’americano Edward C. Banfield (1916 – 1999) bisogna arrivare ad un altro scrittore che ha saputo leggere le tradizione e le culture dei popoli come fenomeno etno – antropologico: Cesare Pavese (1908 – 1950. si pensi a Paesi tuoi, 1941, e a Feria d’agosto, 1946).

Siamo Occidentali perché siamo eredi dell’Oriente non per processi direttamente culturali. Ma perché abbiamo introdotto nella nostra storia di popolo il caffè. Sino al Rinascimento abbiamo cercato di diventare medioevali e abbiamo coltivato l’umanesimo sulle griglie delle pietre. Poi abbiamo scavato nella roccia e nel marmo come ha fatto Michelangelo. Poi nell’epoca che chiamano dell’intelligenza abbiamo cercato di inventare e di vestire un uomo di mezza tacca di cultura da intellettuale. Ma prima c’è stato il caffè che ha superato tutti gli aforismi mercantili tanto da far dire a Voltaire: “Bevo quaranta caffè al giorno, per essere ben sveglio e pensare, pensare a come combattere i tiranni e gli imbecilli”.
È vero per metà perché già Pietro Verri nel 1764 aveva disegnato un trattato sul caffè. Da questa epoca in poi ormai è vietato definirci figli dell’Illuminismo. Ma di quale illuminismo? Voltaire aveva bisogno di 40 caffè! Noi, figli della Grecia e dei Lumi. Ma no! Siamo eredi del caffè! Siamo eredi antropologici di una età moderna chiamata Antropologia del caffè. Anzi, l’etno – antropologia del caffè ha creato l’uomo moderno.

Un uomo moderno che può avere radicamenti provenienti da emisferi diversi ma soprattutto è un uomo con forti connotazioni turche e arabe. Ecco ciò che asserisce Pietro Verri (1728 –1797) in Storia naturale del caffè, in “Il Caffè” 1764–1766, a c. di G. Franciosi e S. Romagnoli, Torino 1998, vol. I: “Il caffè, signori miei, non è altrimenti una fava o un legume, non nasce altrimenti nelle contrade vicine a Costantinopoli; e se siete disposti a credere a me, che ho viaggiato il Levante ed ho veduto nell’Arabia i campi interi coperti di caffè, vi dirò quello che egli è veramente. Il caffè, che noi orientali comunemente chiamiamo cauhè e cahua, è prodotto non da un legume, ma bensì da un albero, il quale al suo aspetto paragonasi agli aranci ed a’ limoni quand’hanno le loro radici fisse nel suolo, poiché s’alza circa quattro o cinque braccia da terra; il tronco di esso comunemente s’abbraccia con ambe le mani, le foglie sono disposte come quelle degli aranci, come esse sempre verdi anche nell’inverno e come esse d’un verde bruno; di più l’albero del caffè nella disposizione de’ suoi rami s’estende presso poco come gli aranci, se non che nella sua vecchiezza i rami inferiori cadono alquanto verso il pavimento. Il caffè cresce e si riproduce con poca fatica anche nelle terre le quali sembrerebbero sterili per altre piante; e in due maniere si moltiplica, e col seme (il quale è quell’istesso che ci serve per la bevanda) e col produrne di nuove pianticelle delle radici. È bensì vero che il seme del caffè diventa sterile poco dopo che è distaccato dall’albero, ed alla natura deve imputarsi, non alle pretese cautele degli Arabi se ei non produce portato che sia da noi, poiché non è altrimenti vero che gli Arabi lo disecchino ne’ forni, né nell’acqua bollente a tal fine, come alcuni spacciarono. L’albero del caffè finalmente s’assomiglia agli aranci anche in ciò, che nel tempo medesimo vi si vedono e fiori e frutti, altri maturi, altri no, sebbene il tempo veramente della grande raccolta nell’Arabia sia nel mese di maggio. I fiori somigliano i gelsomini di Spagna, i frutti sembrano quei del ciriegio, verdastri al bel principio, poi rossigni, indi nella maturanza d’un perfetto porporino. Il nocciolo di esso frutto rinchiude due grani di caffè, i quali si combaciano nella parte piana e son nodriti da un filamento che passa loro al lungo, di che ne vediamo vestigio nel grano medesimo: si raccolgono i frutti maturi del caffè scuotendone la pianta, essi non sono grati a cibarsene, si lasciano diseccare esposti al sole, indi facendo passare sopra di essi un rotolo di sasso pesante si schiudono i gusci e ne esce il grano. Ogni pianta presso poco produce cinque libbre di caffè all’anno, e costa sì poca cura il coltivarla ch’egli è un prodotto che ci concede la terra con una generosità che poco usa negli altri.
Nell’Oriente era in uso la bevanda del caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da’ maomettani, cioè circa la metà del secolo decimo quinto; ma nell’Europa non è più d’un secolo da che vi è nota. La più antica memoria che sen’abbia è del 1644, anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabilì la prima bottega di caffè aperta in Europa l’anno 1671. La perfezione della bevanda del caffè dipende primieramente dalla perfezione del caffè medesimo, il quale vuol essere arabo, e nell’Arabia stessa non ogni campo lo produce d’egual bontà, come non ogni spiaggia d’una provincia produce vini di forza eguale. Il migliore d’ogni altro è quello ch’io uso, cioè quello che si vende al Bazar, ossia al mercato di Betelfaguy, città distante cento miglia circa da Mocha. Ivi gli arabi delle campagne vicine portano il caffè entro alcuni sacchi di paglia e ne caricano i cameli [sic]; ivi per mezzo dei banian i forestieri lo comprano. Comprasi pure il buon caffè al Cairo ed in Alessandria, dove vi è condotto dalle caravane della Mecca. I grani del caffè piccoli e di colore alquanto verdastro sono preferibili a tutti. Dipende in secondo luogo la perfezione della bevanda dal modo di prepararla, ed io soglio abbrucciarlo appena quanto basti a macinarlo, indi reso ch’egli è in polve, entro una caffettiera asciutta lo espongo di nuovo all’azione del fuoco, e poiché lo vedo fumare copiosamente gli verso sopra l’acqua bollente, cosicché la parte sulfurea e oleosa, appena per l’opera del fuoco si schiude dalla droga, resti assorbita tutta dall’acqua; ciò fatto lascio riposare il caffè per un minuto, tanto che le parti terrestri della droga calino al fondo del vaso, indi profumata altra caffettiera col fumo del legno d’aloe, verso in essa il caffè che venite a prendere e che trovate sì squisito.
Il caffè rallegra l’animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco moto e che coltivano le scienze. Alcuni giunsero perfino a paragonarlo al famoso nepente tanto celebrato da Omero; e si raccontano de’ casi ne’ quali coll’uso del caffè si son guarite delle febbri e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile che ne accelera il moto, e lo dirada e lo assottiglia e in certa guisa lo ravviva. Questa pianta animatrice, naturale per quanto sembra al suolo dell’Arabia, fu verso il fine dello scorso secolo dagli Olandesi trasportata nell’isola di Java a Batavia, indi moltiplicatasi, ivi se ne dilatò dai medesimi la piantagione anche nell’isola di Ceylon, poscia col tempo se ne portò in Europa; e in Olanda e in Parigi per curiosità se ne coltivano le piante, le quali nelle serre riscaldate l’inverno reggono e producono frutti, e tanto sen’è universalizzata la cultura presentemente che nell’America e nell’Indie Orientali se ne fa la raccolta, cosicché abbiamo caffè di Surinam, dell’isola Bourbon, di Cayenne, della Martinica, di S. Domingo, della Guadalupa, delle Antille, dell’isole di Capo-Verde. Il caffè d’Arabia è il primo, quello dell’Indie Orientali vien dopo, il peggiore d’ogni altro è quello d’America.
Così terminò di parlare Demetrio; ed io credetti al suo discorso, poiché lo trovai conforme a quanto ne aveva letto nelle Memorie dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi dell’anno 1713 in un Memoire del signor Jussieu, a quanto ce ne attestano i Viaggi dell’Arabia felice del signor La Roque , del cavalier di Marchais, le Memorie del signor Garcin. Ma poiché ebbe terminato il suo ragionamento Demetrio, s’alzò il curiale e uscì dalla bottega ripetendo: Gran fatto, che quel legume del caffè, quella fava, ci debba venire sino da Costantinopoli!”.

E forse ho citato oltre il dovuto, ma Pietro Verri dimenticato ritorna per insegnarci che non bosogna dimenticare. L’antropologo non può fare a meno di lavorare intorno alle origini del gusto, dell’eleganza, della furbata del caffè. Tanto che Jules Michelet, (1798 – 1874) in L’avènement du café scrisse: “…il caffè che sopprime la poesia vaga e pesante dei fumi dell’immaginazione, che, ben visto dal reale, scatena la scintilla e il chiarore della verità”.
Fino addirittura a sostenere: “Le café arabe la prépare, même avant 1700. Ces belles dames que vous voyez dans les modes de Bonnard humer leur petite tasse, elles y prennent l’arôme du très-fin café d’Arabie. Et de quoi causent-elles? du Sérail de Chardin, de la coiffure à la Sultane , des Mille et une Nuits (1704). Elles comparent l’ennui de Versailles à ces paradis d’Orient”.

L’antropologia del caffè è nel nostro popolo di cittadinanza mediterranea!
Un caffè con mia madre segnava la complicità della confessione e la parola trovava la sua libertà senza pronunciarla. Con mio padre era come sorseggiare i pensieri che non avevano bisogno di essere espressi” (Manuz Zarateo)

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