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Scriveva uno dei più grandi filosofi dell’Ottocento che:
“Il destino ha due modi per distruggerci, negare i nostri desideri o realizzarli”.

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Perché considero attendibile questa cesellatura? Perché voglio entrare, metaforicamente, dentro, restandone fuori. Io so di non sapere, ma illudo gli altri affinché pensano che io sappia (sic!). Il filosofo si chiama Henri-Frédéric Amiel, nato a Ginevra nel 1821 e morto nel 1881.
Mi fa compagnia in questi giorni tristi e grigi. Entro subito nella questione. Dimissioni di mons. Viganò!
La teologia del rispetto porta sempre dentro di sé la consapevolezza della verità. Possiede tesi legate a un modello culturale, in cui la storia diventa identificazione dei processi culturali, che non sono mai avulsi dal tempo nel quale ci troviamo a vivere.
Un tempo disordinato in cui la leggerezza trionfa. La debolezza del pensiero anima gli spiriti vuoti che si ergono a tutori di una visione che potrebbe essere chiamata “teologia”, in termini religiosi, ma che, nella quotidianità, diventa modello di comportamento.
Avevo ragione quando mi davano torto.
Mi riferisco alle dimissioni di mons. Viganò dai suoi incarichi che svolgeva in nome e per conto del Vaticano e di Papa Francesco.

Ritengo che le sue dimissioni non siano dovute soltanto alla questione della lettera (o della parzialità della lettera) letta a firma di Benedetto XVI, ma siano dovute alla volontà di voler nascondere una frase del Papa emerito, ovvero Benedetto XVI, in un momento cruciale quale è il nostro, occultando di fatto la verità riguardante il discorso sugli undici libretti relativi alla teologia di Papa Francesco.

Teologia che non esiste poiché Papa Francesco non ha una teologia, ma una provvisorietà di relativismo teologico. Mi meraviglio del fatto che abbia accettato le sue dimissioni, (anzi no) perché entrambi (Papa e Viganò) costituiscono la sottolineatura di una stessa posizione “teologica” e culturale, anche se di culturale ha il nulla della superficialità.
Mi suggerisce ancora il mio amico filosofo Henri- Frédéric Amiel, in uno dei “Frammenti di Diario intimo” del 12 giugno 1871: “Le masse saranno sempre al di sotto della media. La maggiore età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà, e la democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisione intorno alle cose più grandi ai più incapaci. Sarà la punizione del suo principio astratto delle’Uguaglianza, che dispensa l’ignorante di istruirsi, l’imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi.
Il diritto pubblico fondato sull’uguaglianza andrà in pezzi a causa delle sue conseguenze. Perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle apparenze si paga”.

I filosofi che mi amano e che amo sono sempre dei veggenti o dei profeti. Ha raccontato già tutto nel 1871 guardando la società nella quale mi tocca vivere e il tempo che mi tocca decifrare.
Comunque, andiamo avanti.

Le dimissioni di mons. Viganò esprimono il fallimento completo del papato di Francesco. Se questo Papa ha affidato la comunicazione, il dialogo, il colloquiare a una persona come mons. Viganò significa che non ha saputo valutare attentamente nel momento in cui ha conferito questo prestigioso e potente incarico, oppure semplicemente che erano e sono sulla stella linea.
È ben nota la mia vicenda con mons. Viganò, il quale, in un convegno pubblico a Grottaglie, (Convento dei Paolotti) si è rifiutato di dialogare con me imponendo la mia “non presenza” per il semplice motivo che temeva il dialogo, il colloquio, il confronto. Le sue dimissioni sono la dimostrazione che non poteva affrontare un dialogo perché privo di contenuti dialoganti credibili da proporre.
Questo è il dato di fatto. Non esiste una teoria della deificazione della teologia, perché nel papato di Francesco non c’è una teologia bensì relativismo e il relativismo non può essere assunto come teologia.

Mons. Viganò si rifiutò di incontrarmi perché la mia posizione è vicina, come è risaputo, a quella di Benedetto XVI. Le posizioni vicino al Papa emerito sono ricche di una filosofia della teologia, di un processo culturale esistenziale profondamente radicato nella centralità di Cristo e nel dolore del tempo della crocefissione e non nell’uomo.
Negando l’incontro con me ha dimostrato negligenza nei confronti del “pensare pesante”, della “parola pensante”, di un confronto a tutto tondo proprio sui temi del dialogo, nei riguardi di un tema quale era quello della comunicazione della partecipazione in nome dell’incontro e del radicamento.
A distanza di mesi oggi dico che tutto quello che ho scritto, non solo su mons. Viganò ma sull’intero percorso del papato, è completamente vero e nulla smentisco. Avevo ragione quando qualcuno mi dava torto e mi definiva eretico. Se essere eretico significa essere distante da questo papato, io sono Eretico. E non poco!
Cristina Campo aveva ragione quando rifiutò il Concilio Vaticano II.

Queste dimissioni “forzate”, (mi sembrano molto di copertura) testimoniano non solo la sua debolezza, ma il trascinamento di una teologia del nulla e dell’apparenza, che è stata portata avanti da quando Papa Francesco si è insediato sul trono di Pietro.
Continuo, imperterrito, oggi più che mai, pertanto, a chiedere le dimissioni del Papa.
Bergoglio è l’Anti Cristianità della Tradizione.
Se mons. Viganò era il portavoce ufficiale del Vaticano, il Papa non poteva non sapere, non poteva non conoscere la visione degli undici volumi dedicati alla teologia di Francesco, non poteva non conoscere la lettera di Papa Benedetto XVI.

Che senso ha avuto pubblicare questi undici volumi che spiegano la teologia di Papa Francesco chiedendo il parere a Benedetto XVI? Credo che non si possa addossare tutta la responsabilità a mons. Viganò, un autentico “capro espiatorio”.
Un esecutore di ordini superiori, il potente Viganò!
Le responsabilità sono del Pontefice.
Un pontificato, nel quale la parola e il pensiero sono del tutto privi di quella visione in cui la cristianità diventa riferimento metafisico e ontologico. Questo significa che la “teoria della tradizione”, alla quale fa riferimento Benedetto XVI erede di Giovanni Paolo II, resta ancora oggi una tesi fondamentale che non può essere smontata.
L’ontologia del’anima, alla quale si richiama quel grande filosofo e scrittore della parola della cristianità che è Benedetto XVI, è sempre prevalente su un pontefice che finora non ha dato nulla in termini di teologia di pensiero.
La leggerezza che trionfa è figlia di un modello prettamente sessantottino. Siamo ritornati a una visione in cui il trionfo di don Milani è l’esaltazione di un analfabetismo di ritorno anche sul piano teologico. Basta ascoltare alcuni Vescovi, anche già miei amici, che riputano rivoluzionari, ma di cosa?

Mons. Viganò diventa, quindi, sempre più un capro espiatorio. Queste dimissioni rappresentano il fallimento completo di una “politica religiosa” del Vaticano. Viene messa in discussione tutta la visione di Papa Francesco.
Avevamo ragione quando ci davano torto.
Tutta la politica, perché di politica si tratta, sull’immigrazione, da Lampedusa in poi fino al viaggio a Cuba con tanto di falce e martello in evidenza, quasi a voler celebrare il comunismo, ha significato annientare la visione di una Chiesa che dovrebbe a-ideologica e a-politicizzare il pensiero.

Non bastano le dimissioni di mons. Viganò.
Papa Francesco si deve arrendere. Non è in grado di fare il Papa.
Un pontificato completamente fallimentare, da dimenticare.
Si dimetta anche Lei Bergoglio!

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