Leonida di Taranto
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Il viaggio è un attraversare le vie dell’antropologia. L’antropologia è anche una estetica che attraversa le civiltà. La metafora dell’attraversamento del viaggiatore – scrittore, tra i modelli antropologici e filosofici e quelli strettamente letterari, ha trovato nell’opera di Claude Lévi – Strauss (Bruxelles, 28 novembre 1908 – Parigi, 30 ottobre 2009) uno dei maggiori interpreti (se non il maggiore interprete in un Novecento che culturalmente non è finito e tanto meno si è smarrito tra le onde del secolo nuovo), che ha inciso un solco straordinario in un rapporto tra civiltà e linguaggio.

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Nell’opera dell’antropologo Lévi – Strauss ci sono modelli epistemologici che si aprono a ventaglio intorno ad una fenomenologia che parte chiaramente da “Tristi tropici” che risale al 1955 e percorre saggi come “Il pensiero selvaggio” del 1962 e ancora “Il crudo e il cotto” del 1964, ma trova la sua “attualità” di pensiero in un intreccio sistematico che è lo studio dedicato a “Guardare, ascoltare, leggere” insieme a “Le vie delle maschere”.

“Tristi tropici” è stato tradotto in Italia nel 1965 da Bianca Garufi. Una scrittrice e psicanalista molto vicina a Cesare Pavese, tanto che con Pavese ha scritto il romanzo rimasto incompiuto dal titolo: “Fuoco grande”. Un tema significativo, quello del fuoco, che è stato centrale nella ricerca di Lévi – Strauss perché ha rappresentato il “diario” intimo di una antropologia profondamente esistenziale giocata costantemente intorno a riferimenti mitico – simbolici e strettamente alchemici. Da antropologo puro, che ha scavato all’interno delle civiltà, dei popoli, degli uomini con le maschere e senza caverne, ha penetrato quel tessuto fatto di linguaggi: i linguaggi delle parole, i linguaggi dei colori, i linguaggi delle vocali molto cari al Rimbaud, appunto, di “Vocali”.

Certo, il punto di riferimento rimane la scientificità rigorosa e applicata sul campo culturale e umano che emerge da “Tristi tropici”, nel quale si racconta delle spedizioni di natura etnologica nei popoli indigeni sia del Brasile che del Mato Grosso sino a toccare le terre dell’Amazzonia durante gli anni Trenta. Un riferimento che è rimasto tale ma si è esteso grazie ad una analisi comparata sia dal punto di vista letterario che pedagogico in una visione in cui miti, credenze e riti non sono elementi “sovrastrutturali” delle culture ma sono la vera espressione di processi dentro le identità delle civiltà.
Catturare il senso del selvaggio dei popoli è un andare oltre la storia definita come apparenza meramente storiografica. Proprio per questo i linguaggi non sono soltanto motivazioni di una comunicazione diretta e indiretta ma costituiscono delle suggestioni dentro le espressioni dello spirito dell’uomo.

D’altronde Lévi – Strauss ha collaborato con uno studioso dei linguaggi come Roman Jakobson grazie al quale ha potuto analizzare i testi di un poeta come Baudelaire e prendere come esempio una poesia che si presta ad una apertura interpretativa meta – letteraria in una non consuetudine, per quei tempi, fortemente ancorata al tessuto antropologico. Mi riferisco a “Le chat”, un poesia sulla quale Lévi – Strauss ha orientato la sua esperienza e la sua testimonianza di antropologo dentro il guardare le parole.

Il dato di fondo è che nel progetto dell’antropologia applicata alla letteratura di Lévi – Strauss (capovolgendo i termini il processo culturale non cambierebbe) l’analisi dei linguaggi è dentro la capacità di leggere i popoli non come modelli legati ad un determinato territorio ma come espressione di civiltà e quindi di un portato di eredità che è possibile definire risistemando la griglia simbolica offerta dagli archetipi.
I popoli continuano a vivere lungo la dimensione culturale degli archetipi. La letteratura resiste all’uro della storia soltanto grazie ai simboli. Già in “Tristi tropici” questa versione si enuclea considerando il fatto che i popoli durano nel racconto.
Infatti è recente l’affermazione di Bernard – Henri Lévy: «“Tristi tropici” è letteratura magnifico (…) un pensatore che era pure un maestro di stile letterario» (“Corriere della Sera” del 4 novembre 2009). Una piccola ma importante osservazione che ricontestualizza la funzione che ha avuto Lévi – Strauss.

Il linguaggio, in fondo, resta una motivazione nella caratterizzazione della comprensione dei popoli. Un linguaggio che nasce sia dalla oralità sia dalla gestualità sia dallo sguardo. Un atto di vera creatività che si inserisce nel quadro delle ricerche e delle attività speculative che Lévi – Strauss ha condotto partendo da un presupposto di fondo: gli uomini fanno i popoli e i popoli si leggono in una visione complessiva che è quella della civiltà che per durare non deve assentarsi dalle eredità. Ecco perché la lettura antropologica si presenta con un mosaico la cui interpretazione passa inevitabilmente lungo i tracciati della letteratura.

“La via delle maschere” sviluppa proprio un percorso ad intreccio tra antropologia e opportunità letterarie il cui significante è dato dalla presenza dell’estetica che si confronta con il mito. Leggere e interpretare i segni di una maschera nella cultura del mondo primitivo è dare una dimensione all’onirico che si trova tra gli spazi dei popoli antichi attraverso la misura delle distanze che è data dal tempo. Il tempo è una istanza anche antropologica e rimane tale soltanto se è l’estetica a farsi voce.
È un concetto che rimanda alla letteratura. Ma Lévi – Strauss sapeva bene che l’antropologia, pur nella sua scientificità dei dati e dei fatti, diventa strumento interpretativo grazie alla capacità del linguaggio. Ma il linguaggio è una estetica della letteratura che si presta a qualsiasi rottura di schemi.

L’antropologia è dentro la letteratura. Ma la letteratura ormai non può assolutamente assentarsi da una motivazione e da emozioni che nascono o derivano da intagli antropologici. Insomma tutta la vita è uno scavare nella memoria. È un catturare le voci della memoria.

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