Credo che sia necessario recuperare la poesia della cristianità partendo proprio da San Francesco d’Assisi. Nelle nostre vite il santo d’Assisi è il luogo del distacco, della gioia, del pensiero terreno oltre una ideologia ambientalistica cattolica bergogliana (un errore misurato quello di papa Bergoglio su San Francesco e l’enciclina ambientalista, proprio fuori luogo).
“Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate/ e serviateli cum grande humilitate”. Oltre il laicismo c’è una poesia cristiana che resta e resiste in questo tempo della desertificazione. Valori e linguaggi oltre la stessa funzione politica della poetica. La poesia non ha alcuna funzione politica. La poesia è mistero.
Chi non è capace di penetrare i silenzi del mistero e i segni dell’indefinibile della parola legga altro. Chi ha la forza, il coraggio, lo stile di credere che nella parola ci sono i sentieri incantati della preghiera legga il viaggio e il destino di quei poeti che non si sono mai assentati dalla religiosità del tempo e nel tempo hanno cercato un orizzonte di cristianità, di fede, di umanesimo. Quello vero. Da questo punto di vista il francescanesimo nella poesia è tradizione, è indefinibile nostalgia di fede, è cristocentricità.
La speranza francescana ci introduce in un “camminamento” che non è solo profetico ma anche esistenziale. Di una esistenzialità che cattura il presente ma pensa costantemente al sempre. La visione francescana è una dimensione umana e religiosa che poggia le sue base etiche e metafisiche sull’idea dell’umiltà. Ma la specificità della santità sta proprio nell’umiltà e nella carità. San Francesco d’Assisi è il Santo, tra l’altro, del dialogo. L’umiltà e la carità non sono delle caratteristiche altre. Ma sono connaturate nella pedagogia del dialogo.
Nella poesia italiana del Novecento vi sono precisi connotati religiosi. E’ da questi segni che il valore metafisico della parola acquista una profondità che va in direzione del messaggio, il quale è comunicazione.
La poesia religiosa del Novecento non si presenta attraverso un tessuto omogeneo; nel suo interno vi sono diversità sia sul piano linguistico sia contenutistico. Occorrerebbe meditare su questo fenomeno che, però, non ha radici nel Novecento? Le sue origini vanno fatte risalire certamente a quella grande poesia che ha in Francesco d’Assisi un capostipite importante.
Sono appunto gli scritti di San Francesco d’Assisi che fanno iniziare un nuovo viaggio all’interno dell’uomo e della letteratura. E tre poeti del Novecento che hanno vissuto il messaggio francescano sono senza alcun dubbio Rebora, Onofri e Ungaretti. Tre modelli poetici in un secolo contrassegnato da lacerazioni e da dubbi anche religiosi. Accanto a questi andrebbero ricordati anche Comi e Fallacara, Betocchi, Luzi, Grisi, Turoldo, Testori e la mia stessa poesia per toccare i giorni nostri.
Il punto dal quale si snodano i valori e le idee di questi poeti è Francesco d’Assisi. E’ un’epoca la nostra che va alla ricerca di un segno di salvezza, non ci sono certezze, si tenta di individuarle. Non ci si può accontentare del tempo. Il senso di morte è nel tempo. La salvezza supera il tempo e la morte. Ecco perché la parola diventata messaggio si dipinge di autorevolezza.
Si dice che occorre individuare il centro. Ebbene attraverso un viaggio che dovrebbe superare il tempo il messaggio cristiano trova la sua più emblematica espressione.
“Ad te solo, Altissimo, se konfano,/et nullu homo ène dignu te mentovare”. Francesco d’Assisi comincia questo viaggio; il suo “Cantico delle Creature” è il valore poetico più alto e significativo con il quale la poesia del Novecento si è dovuta costantemente confrontare.
Giorgio Petrocchi scrive: E’ un dovere culturale leggere tutto Francesco, riascoltare e approfondire il Cantico di frate Sole, riavvicinare il Santo attraverso la sua stessa parola o quella ardente, commossa, partecipe dei primi biografi e dei tardi rapsodi, di coloro che scrivono in latino e anche dei volgarizzatori, i quali sono ben lungi dal compiere una mera opera di traduzione letterale, ma riadattano, riscrivono, rivivono il testo originale col desiderio di compiere un’opera nuova, di affidare al loro modo di scrittura il personale messaggio d’amore amore a Francesco: d’amore e di fedeltà ».
Per i poeti del Novecento sì tratta sì di una ricerca letteraria ma soprattutto di una dichiarazione d’amore. In Ungaretti questa dichiarazione d’amore è profondamente vissuta; vi sono dei versi penetranti, sottili ove la religiosità si lega alla vita e viceversa. La « terra promessa » è una chiave di lettura francescana nella quale le tracce di una cristianità profonda hanno un sapore antico.
Ci canta: « Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’ umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare /Umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri ».
E’ soltanto un esempio. Ma nella pagina cristiana di Ungaretti si riscontra quasi un dialogo mai interrotto fra il poeta e il Cristo. Francesco è in questo dialogo perchè la parola ungarettiana trasuda sangue, dolore, vita.
E’, senza mascherare alcuna metafora, una « creatura ». Ma nel suo itinerario questa creatura – parola lancia messaggi di una fede1tà che non si spezza e che dura. L’ amore per Francesco è vivo sia in Comi che in Fallacara. Ulteriore segno della sua importanza nel contesto poetico contemporaneo.
A tal proposito sempre Giorgio Petrocchi osserva: «L’amore per Francesco attraversa tutto il Duecento, ed è anzi una delle componenti fondamentali di quel secolo, forse in sua principale chiave di lettura. E il Duecento consegna intatto, pur in differenti proiezioni e con varietà di significati, questo amore al secolo successivo, lo affìda a Dante e al Petrarca, lo approfondisce ulteriormente, lo riempie d’altri significati, ne fa un emblema valido per tutti i tempi a venire. In tal maniera Francesco diviene un protagonista anche della nostra età, e la sua presenza addolcisce o inquieta, rasserena o turba la necessità (o semplicemente il più vago anelito) dell’uomo di oggi, calato in un ambito sociale fortemente laico, di sentire Cristo e il Vangelo» (Francesco d’Assisi, Gli scritti e la leggenda, a cura di Giorgio Petrocchi, Rusconi).
Certo la sua presenza è una presenza viva anche se scopre l’altra faccia dell’uomo. E’ una presenza importante perchè in una età di disgregazioni e dì lacerazioni la sua voce nella notte di tempesta rassicura.
È la rassicurazione nell’inquietudine. La sua voce è preghiera. “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore/ et sostengo infirmitate et tribulatione”.
Ma la poesia religiosa del Novecento è forse preghiera? E’ una parola, un cantò che prega e snocciola sulla pagina tutti i grani del rosario. Il Sentimento del Tempo di Ungaretti non è anche un viaggio nella religiosità della vita? La preghiera di Francesco non è forse un messaggio rivolto alla religiosità della vita? E il Dio di Rebora è in questo viaggio. Così la Fede di Onofri.
Accanto a Francesco vi è la figura di Jacopone. In Fallacara la dimensione religiosa risente del paesaggio lirico-cristiano che è in Jacopone. E recita: « Carne fiorita sei tu, Cristo in me: / dolor, dolore è questo rosso fiore, / ma se amor dico, dico, Cristo, te, / se dolor dico, dico, Cristo, amore ».
La parola cristiana trova qui, in Fallacara, una traducibilità di valori densa di significati. Il senso profondo della metafisicità che costituisce il tema dominante nella ricerca di questi poeti fa sì che il messaggio possa essere trasmesso con tutta la sua forza attraverso la parola. Ma Francesco ci ha insegnato che la parola è preghiera. E’ così che la parola diventa sentimento.
Ecco ricomparire l’immagine ungarettiana. Ciò dimostra che nel Novecento la testimonianza di Ungaretti è una testimonianza che conta non soltanto sul piano del linguaggio (non ci si dovrebbe mai stancare di ripeterlo) ma anche sul piano dei valori. La sua «terra promessa» è una terra che domanda, che chiede, che pone interrogativi ma mai illude.
È poeta senza falsi indugi canta: « Dio, coloro che t’implorano / Non ti conoscono più che di nome?». Ma la poesia, questa poesia, resta nella tenerezza delle nostre vite come anima mai persa e come voce ascoltante in una costante immagine che è quella della Croce e del Cristo Redente.