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I musei sono anche beni immateriali. Nella concezione moderna del bene culturale non tutto ciò che è materia può essere considerato patrimonio necessario per comprendere l’identità di una Nazione e per essere considerato, nel campo del patrimonio culturale, come riferimento necessario che va a completare la visione del bene materiale.

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Si tratta di una esperienza già discussa decenni fa, ma che oggi diventa il dato cruciale per comprendere il dialogo tra oggetto testimoniale, testimonianza di un reperto e forma immateriale in una filosofia del pensare e non solo del mostrare.
Il lavoro che sta portando avanti il MarTa (il Museo nazionale archeologico di Taranto) diretto dall’ottima Eva Degli’Innocenti è una espressione di volontà di un legame tra scientificità – pedagogia e conoscenza – fruibilità.

I musei sono stati considerati, per epoche, contenitori di oggetti, per usare un vocabolario popolare – lingua volgare, e successivamente, rispetto alle diverse chiavi di lettura, spazi dove poter mostrare pezzi di storia, percorsi di civiltà, dimensioni di identità.
Certo questo modello insiste ancora. Non è stato demolito. Ma la ristrutturazione di una lettura della storia all’interno dei musei passa ormai attraverso fasi che sono visualizzanti nella manifestazione della valorizzazione, che parte dalla conoscenza, ma diventa modello comparativo con una pedagogia dell’apprendimento.

Mi pare che siamo in un’ottica in cui la metodologia di una educazione permanente delle culture deve diventare dato primario, e proprio per questo il legame – rapporto con il mondo della scuola diventa fondamentale. È chiaro che puntando sui musei come strumenti primari di comunicazione delle culture si è voluto proporre una interpretazione dialogica tra l’immateriale e il materiale e il territorio.

Perché un museo esprime anche una lettura immateriale? Perché diventa sede di dibattito, di ricerca, di confronto tra la specificità delle arti e delle attività (da quella archeologica a quella storico – artistica) e le articolazioni del pensiero nella contemporaneità delle culture autoctone e, appunto, comparative all’interno dei processi dialettici che le società sviluppano. Un museo, in altri termini, pur esso archeologico, o di altra “fattura”, deve avere la capacità di saper leggere oltre l proprio comparto e le proprie competenze.
L’archeologia soprattutto oggi è anche etno – archeologia. L’archeologia oggi è soprattutto una archeologia dei saperi incrociati che vivono in un determinato territorio in una geo-cultura ampia. L’archeologia oggi è saper mettere a confronto la modernità, ciò che nasce nella modernità dalla tradizione, il senso di vivere nel contemporaneo e riconoscere in quel concetto di memoria le radici profonde di una consapevolezza che va oltre la misura del tempo – spazio.

Proprio in questa “indiscrezione” l’archeologia è una filosofia dei saperi e viene alla luce la caratterizzazione del pensiero forte, e non unico, di Michel Foucault quando insisteva sulla vera e propria “archeologia del sapere”, perché in ogni manifestazione materiale c’è una psicologia – sociologia di un incontro tra uomo, civiltà, territorio. L’esperienza del Museo di Taranto è importante.

Un reperto archeologico si legge antropologicamente, ma l’antropologia è saper fare i conti con tutta una struttura che è quella del tempo (vivente) come inevitabile passaggio ciclico nella storia e nella tradizione. Per questo parliamo di memoria. Parlare di memoria significa, tra l’altro, mettere insieme una filosofia della storia con una estetica della promozione.

Soltanto in una politica culturale di aperture tra il concetto di “mostrare il materiale” e di parlare il linguaggio che diventa l’immateriale, interpretandolo nelle varie sfaccettature, è possibile che uno spazio definito possa diventare indefinito, ma non certamente indefinibile.
Questo ha sempre più un senso in una società aperta e in un tempo – spazio dove il museo è possibile abitarlo anche senza camminandoci dentro. Abitarlo a – priori per abitarlo successivamente nell’anima. È una dimensione metafisica del bene culturale e, quindi, unisce il dato scientifico a quello pedagogico. Un’esperienza importante che porterà i beni culturali ad essere idea e materia di una civiltà che è espressione di identità. Un’ottima via per dare un orizzonte di senso alla cultura come risorsa di un bene.

La visione del MarTa nella lettura della direttrice Eva Degl’Innocenti va proprio nella direzione di un bene culturale che sa confrontarsi con la memoria e con i processi culturali nella contemporaneità. Una bella avventura destinata ad ottimi risultati.

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