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E’ un fatto positivo che i beni culturali sono diventati ormai un tema che occupa lo scenario della dialettica di questi ultimi mesi. Una discussione aperta. La Riforma del Ministro Dario Franceschini, nelle sue fasi, ha fatto discutere, ma i risultati, in pochissimo tempo sembrano registrare degli elementi abbastanza positivi con la centralità dei Musei come “strumenti” di cultura. Un’idea fortemente innovativa.

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Ho studiato attentamente la Riforma Franceschini già in fase di dibattito parlamentare quando, ovvero era ancora in itinere il dibattito e la presentazione della Riforma, e l’anima giuridica e quella umanistico – museale mi è sembrata di grande rilevanza soprattutto in una società come la nostra.
Ho immediatamente interpretato nella Riforma Franceschini una innovazione di fondo. Al di là degli aspetti prettamente giuridici, finalmente le separazioni delle culture sono state considerate in un articolato modulare interattivo tra vari ambiti di competenza. Un aspetto significativo, ve ne sono tanti, è quello di aprire le culture prettamente scientifiche ad una metodologia didattica. Insomma siamo entrati in una vera e propria pedagogia dei beni culturali. Ciò significa che un Museo è leggibile da tutti, non solo visibile e visitabile. Dico leggibile perché la Riforma parte dai beni culturali come progettualità e non come una variabile della cultura.
Ed è risultato fisiologico, in certi casi e in alcune realtà, il modulare di una dialettica rispetto alla concezione dei beni culturali vissuto come tradizione. Ma la Riforma bisogna conoscerla nella sua articolazione e nei vari spazi di una interazione territoriale. Non c’è stato alcun scippo. Credo che c’è stata invece una parametrazione delle strutture. Il Museo o la Soprintendenza sono sempre strutture che fanno sempre capo al Ministero pur se con competenze diverse. Ormai bisogna puntare sulla valorizzazione. Questo era ed è il quesito. Ed è su questo che si vince la partita dei beni culturali. I 20 Musei indicati dalla Riforma hanno dei compiti culturali alti e importanti sia per la città che per il territorio dove sono ubicati. Costituiscono la vera struttura che produce, con il materiale che possiede, promuove, organizza cultura valorizzando e dando la possibilità di far fruire i processi di attrazione.

Bisogna abituarsi al fatto che i tempi cambiano e le società vivono le culture in modo diversificato. Ciò che era possibile trent’anni fa o più oggi non è praticabile. Un tempo la Provincia aveva il compito specifico della valorizzazione, io nella stagione del mio assessorato come esterno alla Provincia di Taranto, ho realizzato progetti di valorizzazione in sintonia con il Ministero. Oggi la Provincia non c’è più. La Riforma ha contemplato anche questo aspetto. Ecco perché il Prof. Giuliano Volpe che ha lavorato sulla Riforma in qualità di Presidente del Consiglio dei Beni culturali, conosce molto bene queste realtà. Da esperto e da archeologo attento ha posto all’attenzione il legame tra la cultura dell’archeologia e la cultura della valorizzazione.

I beni culturali, nell’immaginario della cultura del turismo, sono in una strategia dell’attrazione non solo dal punto di vista culturale ma anche turistico. D’altronde il Ministero si occupa di cultura e di turismo. Il fatto è che bisogna entrare in una visione della cultura come economia dei territori e come strategia di sviluppo all’interno dei processi che le culture manifestano. Qui è la chiave di lettura. Aiutiamo a creare una educazione alla cultura dei beni culturali. La Riforma Franceschini vede in questo riferimento un consolidamento tra Istituzioni, territorio e Associazionismo. Dobbiamo far crescere culturalmente le città e i territori. I Musei sono delle agenzie alle quali va dato un contributo da parte di tutti noi perché solo così si darà un senso alle identità di una cittadinanza”.

È chiaro che la Riforma Franceschini esercita una funzione fondamentale nella cultura dei nostri giorni? E non solo. È il collante tra la società in transizione e la multidisciplinarità delle culture e il peso della Riforma è quello che ha saputo guardare e sa guardare non solo al presente, ma soprattutto a un domani per una Nazione che può puntare agli investimenti culturali. La Riforma è un’apripista, letta nella sua peculiarità, con una intelligenza giuridica, verso nuove forme di professionalità nel campo dei beni culturali.

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