Uno statista inglese ebbe ad affermare, tempo fa, che “gli italiano fanno la guerra come se giocassero al calcio, e giocano al calcio come se stessero facendo la guerra”. Forse allora non si prevedeva che alcune partite sarebbero stato il pretesto per veri e propri episodi di guerriglia urbana, ma solamente sottolineare quanto in Italia scatenasse passioni, entusiasmi e – a volte – fanatismi. Nel suo “Non perché è mio figlio…”, Pako Tataranni offre uno spaccato originale ed interessante del mondo del calcio osservato da una angolatura poco nota e che raramente “fa notizia”:, ovvero quella dei procuratori, quelle figure a metà tra talent-scout e rappresentanti di commercio, padri-padroni e fratelli maggiori che possono aiutare a trasformare il talento di un giovane calciatore in professione con guadagni milionari.
La realtà, come spesso accade, è molto più prosaica e meno luccicante di quanto si legge sui giornali; per una star viziata ed irresponsabile che distrugge una Ferrari dopo una notte di baldoria, ci sono migliaia di ragazzi che per poter giocare a calcio spendono tempo, energia e denaro; a fronte dei pochi impianti sportivi avveniristici in cui si disputano partite internazionali, ci sono migliaia di campi in terra che somigliano più ad un percorso addestrativo dei marines americani che ad un luogo dove sviluppare doti atletiche e tattiche. Pako Tataranni, scrittore lucano, conosce molto meglio queste ultime realtà, e le descrive con un intrigante mix di ironia e consapevolezza, ribadendo con passione (sempre lei!) e senza retorica che è in quei campi con troppe buche e poca erba che è possibile trovare il calcio vero, quello fatto di sudore e abnegazione, di voglia di fare bene e di sentirsi parte di una squadra. Ma anche in quei campi, anzi – soprattutto in quei campi – non mancano i tanti esemplari di fauna umana descritti in “Non perché è mio figlio…”, a partire dai genitori convinti che il loro figliolo sia un campione che allenatori invidiosi e procuratori incapaci non riescono a valorizzare, passando per il padre ossessivo-compulsivo che perseguita il procuratore spronandolo alla ricerca di sempre migliori sistemazioni per il giovane campione e finendo a quei pochi genitori razionali che vivono il calcio con passione si, ma obbiettiva, evitando di trasmettere a bambini ed adolescenti messaggi sbagliati.
Insieme a loro, direttori generali, direttori sportivi, allenatori e preparatori tecnici, alcune brave persone ed altri meno, alcuni seri e preparati ed altri millantatori, alcuni seriamente interessati a cercare la migliore possibilità per i giovani calciatori affidati loro ed altri più impegnati a spremere maggior denaro possibile da genitori pronti a pagare per vedere realizzato il loro sogno. “Non perché è mio figlio…” è tutto questo e non solo, è anche e soprattutto un diario a cuore aperto, praticamente in diretta, in cui Pako Tataranni si mette in gioco (è il caso di dirlo…) in prima persona, raccontando gli entusiasmi e le delusioni, le magagne delle istituzione che fanno finta di non vedere il malaffare che dovrebbero combattere e la responsabilità di chi, su un campo di calcio di periferia, prima ancora di allenare campioni vuole contribuire ad educare uomini.
In “Non perché è mio figlio…” Pako Tataranni offre uno spaccato originale e sincero di uno sport che rimane – almeno per lui – ancora il più bello del mondo spiegando però i motivi della crisi del calcio italiano, il tutto con una “levitas” mista a consapevolezza che forse solo un trentenne meridionale può avere, quasi costretto sin da subito a fronteggiare i limiti insiti nel vivere e lavorare a sud di Roma (amaramente esilarante l’aneddoto sui campi in sintetico dell’ultima generazione in Lombardia) ma altrettanto consapevole dei vantaggi che uno stile di vita più “slow” permette.
Per assurdo, “Non perché è mio figlio…” potrebbe piacere più a chi di calcio non è appassionato, perché lo racconta senza infingimenti e clamori, ma questa opera prima di Pako Tataranni piacerà allo stesso modo a chi ama il calcio vero, perché troverà nuovo alimento alle proprie passioni.
Non sappiamo se piacerà, ma certamente potrebbe essere un utilissimo invito ad una sincera autoanalisi, ai tanti genitori che riversano suoi propri figli i loro sogni irrealizzati, a quei padri troppo ansiosi di trasformare un gioco di ragazzi in un mestiere redditizio, a quei troppi che piuttosto che cementare l’unione del gruppo esasperano le qualità del singolo, rischiando a volte di “bruciare” dei talenti che meriterebbero attenzioni maggiori.