Fui chiamato al telefono di mia moglie per un intervento in sala operatoria. Una bambina doveva essere operata d’urgenza ed unicamente la mia equipe di specialisti aveva l’esperienza pregressa per salvarle la vita. Distavo circa mezz’ora dalla struttura ospedaliera, diedi immediatamente la mia disponibilità ad intervenire e andai a vestirmi. Dopo cinque minuti ero già fuori casa, baciai mia moglie, le mie figlie, i parenti che erano a cena da noi e corsi via.
Era la notte di Natale, il ventiquattro Dicembre duemilatre, esattamente le ore ventidue. Avevo da poco spento il cellulare privato, con la certezza che ogni reparto fosse degnamente coperto dai miei validi colleghi. Ma questo si presentava come un caso singolare, necessitava di un intervento invasivo su una piccola paziente di otto anni. Non me la sentii di delegare. Volevo essere responsabile in prima persona del successo dell’operazione. Successo, perché doveva forzatamente andare tutto per il verso giusto, non contemplavo nessuna altra ipotesi. Parcheggiai accanto l’entrata del Pronto Soccorso, ad attendermi trovai la madre in lacrime. Mi supplicò di considerare la bambina come se fosse una delle mie figlie, mi urlò con le ultime forze che le restavano di salvarle la vita perché sua unica ragione di esistere. Feci un segno di approvazione col capo, mi precipitai negli spogliatoi, ero concentrato, non riuscì a spiaccicare una sola parola di consolazione nei riguardi di quella donna. In sala operatoria ritrovai la mia squadra al completo, non mancava nessuno. La vita della piccola si dimostrò per noi più importante di ogni altra cosa. Cominciammo ad operare alle ventitre e trenta, terminammo la mattina di Natale alle ore otto in punto, ne uscimmo stremati. I colleghi del turno natalizio presero il mio posto, promisi di rientrare in reparto entro sera per la visita post operatoria. Tornai a casa per riposare. Feci subito una doccia ghiacciata, mia figlia preparò una camomilla doppia, mi addormentai sfinito. Il cellulare rimase acceso tutto il giorno, ma nessuno provò a rintracciarmi.
Verso sera ritornai come promesso e come di dovere in ospedale, la prima persona che vidi fu la madre, questa volta non mi fece passare, ingabbiandomi in un abbraccio tanto caloroso quanto spontaneo. Accarezzò i miei capelli, mi baciò la mano e con una preghiera quasi sussurrata raccomandò la mia anima al buon Gesù. Ad attendermi in stanza trovai Angelica, questo il nome della bambina. Sorrise di gusto nel vedermi entrare, lentamente affondò entrambe le mani nella mia folta barba, era la prima volta che contemplava il mio volto. Così come io non avevo mai avuto l’occasione di osservare i suoi profondi occhi azzurri. Provai a fantasticarne la forma, la vivacità, il colore, l’espressione, per tutta la durata dell’intervento. Solo per un istante ebbi il timore di non riuscire a vedere quanto per ore immaginato, il suo cuoricino fragile per un attimo cessò di pulsare sangue. Il più delle volte è la lucida freddezza, naturale conseguenza di un’esperienza trentennale, che permette di riconsegnare alla vita ciò che sembra perduto per sempre. La riprendemmo immediatamente, avvenne tutto in maniera così rapida da apparire alle nostre menti soltanto come un brutto sogno.
Ora quegli occhioni mi stavano osservando, scrutavano con curiosità ogni angolo del mio faccione. Non ci separammo mai più, impossibile dimenticare ciò che in quella notte di Natale aveva legato le nostre anime in un abbraccio spiritualmente indissolubile. Angelica cominciò a frequentare la nostra casa, fin da subito le mie figlie la accolsero come parte integrante della famiglia.
Questa sera lei ed il suo ragazzo hanno cenato da noi. Avevo quasi terminato di scartare la torta, quando ho visto Angelica in procinto di consegnarmi un papiro color perla, dai bordi consumati. La partecipazione per il loro matrimonio. All’interno vi era un pezzettino di carta, tagliuzzato in malo modo, con su scritto “Per il Dottore Illustrissimo” in una calligrafia forse resa incerta dall’emozione. L’ho aperto delicatamente. Questa volta, come in poche altre occasioni nella mia vita, la mano ferma del chirurgo ha lasciato spazio al sentimento forte, cominciando, deliberatamente, a tremare. Mi esortavano a leggere a voce alta, ma l’emozione aveva preso possesso della mia mente, neppure una sola parola è stata pronunciata dalla mia bocca, non un suono, non sono più riuscito a dir nulla. In totale smarrimento ho mandato giù un calice di vino bianco, mi sono alzato in piedi e ho cercato la forza per leggere. Non l’ho trovata. Ho bevuto alla goccia un secondo calice di vino, tra i rimproveri di mia moglie. La stanza ha cominciato a girare, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta. Avrei dovuto dire qualcosa prima di sbattere per terra. Dopo un profondo respiro, l’ennesimo, ho letto tutto d’un fiato ciò che era riportato sul papiro.
“Cosa faresti se per un solo giorno io provassi a trasformarti nel Cavaliere dei miei sogni? Lo sopporteresti? Sai, non so tu, ma io avrei immenso piacere ad essere accompagnata da te in chiesa, ai piedi dell’altare. Oppure chiedo troppo mio carissimo Dottore? Coraggio, comincia a dimagrire che voglio vederti in forma per quel giorno. Non ho avuto mai nella mia vita la possibilità di comprendere fino in fondo quale forma di amore si potesse provare al cospetto di un padre, ma in egual modo sono certa che ciò che nutro per te nel mio cuore va ben oltre il semplice affetto. Sei e per sempre sarai il mio angelo custode.
Io, la tua piccola Angelica!”.
(Pasquale Cavalera ha 32 anni ed è specializzato in racconti brevi. Questo è il suo primo contributo per GIR. Maggiori informazioni sull’Autore e sulle sue opere sono disponibili sul suo sito internet.)