La letteratura è morta. La scrittura della letteratura è morta. La morte della letteratura comincia quando lo scrittore non è più lo scrittore, ma il razionale decifratore di immagini, di cronache, di strutture.
Oggi la letteratura alla Bevilacqua, alla Sgorlon, alla Berto, alla Morselli, alla Salvalaggio, alla Saviane, alla Grisi… (per restare alla generazione ultima degli scrittori veri) è morta. Sono rimasti pochi, ma molto pochi, scrittori che solcano questa via… ma non amano il clamore… Restano a vivere il mistero della parola… La letteratura premiata non è letteratura… La letteratura vive tra le maglie dell’estetica del disincanto. In un tempo come il nostro la letteratura ha perso due caratteristiche fondamentali. Il disincanto, appunto, e l’evocazione. Non sono categorie espressive ma costituiscono due sentieri dell’anima. Ovvero sono i luoghi dell’essere e della recitazione interiore. La crisi dello scrittore non è soltanto crisi di scrittura. E’ molto più profonda e tocca dimensioni della coscienza che rappresentano i veri intervalli tra la parola e l’immagine.
Se oggi si parla spesso che la letteratura ha perso il suo senso, in termini puramente letterari, è anche vero che lo scrittore è diventato altro rispetto alla sua funzione. Uno scrittore pensante o un poeta pensante. Non è su questi aspetti che si possa confrontare l’essere dello scrittore e la parola. Lo scrittore se non resta un alchimista e se non viaggia tra le ragnatele di una magia onirica assume una sua vestale di “operatore” del realismo. Lo scrittore è altro da sé. Non l’investigatore. Ma il magico intagliatore di anime. Il grido del silenzio. Il silenzio che si fa meraviglia. E’ Kierkegaard: “…Semplicemente persi nell’intervallo fra il grido della nascita e la ripetizione di questo grido…”. Solo un poeta poteva decifrare i codici dell’esistenza che segnano la nascita e la morte. Ma i poeti sono i navigatori dell’esistenza della memoria. E viaggiano nel tempo. Un tempo come se fosse mare. Come se fosse vento. Come se fosse terra. E non hanno maschere perché recitano sempre se stessi. Si portano dentro un atlante. La geografia dell’anima. Ogni luogo è un sogno e una tristezza. Ogni luogo è una partenza e un ritorno. L’estetica della vocazione è nei luoghi che si ascoltano nelle metafore.
Quanti viaggi immaginari. Quanti silenzi abbandonati nelle parole. quante agonie. Il poeta è il navigatore che non dimentica. E non ha bisogno di bussole. Ci sono le stelle. Basta guardarle. La bellezza delle stelle. Un punto che illumina. Abbiamo bisogno di punti che illuminano il cammino.
Tante volte ho osservato la stella e mi ha sempre raccontato i destini del mistero. Mi ha raccontato i segni della provvidenza. La stella è un punto che guida. Il faro per i marinai. Quel faro che misura distanze. Ma la stella non misura distanze. Ci siamo addormentati con la stella negli occhi mentre il mare tagliava la roccia. E ci siamo svegliati all’alba quando la stella non c’era più e le onde continuavano a sbattere la roccia. Il poeta quante immagini riesce a dipingere ascoltando una stella.
La poesia è fatta di parole ma sono le parole che sono impregnate di altro. Già, la stella nel solo guardarla crea poesia. Ma poi bisogna pronunciarla. Pronunciamo la parola stella. Nazareth. Il deserto. Verso la terra promessa. Siamo antichi come i sogni di Omero e come le leggi di Mosè. Il viaggio mitico il viaggio nel sacro.
Ci perdiamo come Ulisse in un mare colore del vino ma abbiamo l’attesa dei Magi che seguono la stella cometa. Sulla battigia non ci sono più i nostri passi. Siamo andati via con un tempo che non ritorna e con i nostri anni. Ma è impossibile
arrenderci fino a quando i ricordi affolleranno i nostri dubbi.
I tuoi occhi avevano il silenzio delle streghe. E la mia inquietudine era una pazzia senza consolazione. Chiedere altro. Ma cosa? I poeti viaggiano e sanno portarsi dentro agonie e disperazioni ma sanno anche capire la bellezza. Un amore che finisce non è solo tristezza. Conserva dentro di sé l’armonia di un amore vissuto anche se non c’è più. E questa armonia è una straordinaria bellezza.
Cosa direbbe Sthendal? Il rosso e il nero. Quando non si ha paura d’amare è la bellezza che prende il sopravvento. Le storie che finiscono non devono straziare. Paura della morte? Anonimo veneziano di Giuseppe Berto: “E’ la paura della morte che mi fa paura. Non è un gioco di parole. se accadesse senza che me ne accorgessi, non me ne importerebbe niente… Terrore e attrazione…”.
Il poeta disperato è l’uomo che ha paura di non amare più. E non di non essere amato. La bellezza era nel suo sorriso e la tenerezza era nel perdersi tra le foglie dei suoi capelli. La passione è il dilungarsi di una notte d’amore quando la pazzia invade l’anima e l’attrazione è una penetrazione di corpi. Ma perché i poeti sono i navigatori dell’esistenza? Amore e morte. Le parole sono nella conchiglia e recitano la vita. L’immenso desiderio di vivere. Il tempo tocca gli anni. Gli amori abbandonati lungo le strade sono appuntamenti falliti. Il vento riporta echi.
Se non ci fossero le parole avrebbe più senso guardarci negli occhi? La stella del viandante è un riflesso di sguardi. Ci si perde e ci si ritrova. Proprio come tanto tempo fa. La bellezza di Nausicaa è impareggiabile di fronte a quella di Penelope.
Ma cosa è la bellezza? Ciò che sento? Ciò che vedo? Gesù che parla nell’Orto degli Ulivi è un esplodere della bellezza. Arriva il tempo che il viaggio sembra compiuto ma è soltanto un infinito desiderio di capire. Non riusciremo mai a capire fino in fondo.
La morte che incombe in una tragica Venezia mentre la musica imperterrita tocca le corde del sogno. E la storia non c’è. Non può fermarsi nella tragica Venezia che suona una viola di morte.
Ancora Berto nel finale del veneziano anonimo: “…nell’antico concerto che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, e forse d’una città, e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza”. Solo il tempo è un lento bussare mentre le porte si aprono senza insistere. I poeti non restano nella storia. E’ buffo. Può anche essere un mistero buffo. I poeti non sono ciarlatani. Né attori inconsolabili.
Te ne sei andata in una notte di bugia e la tua assenza è un costante ascoltare frammenti di vuoto. Avrei voluto raccontare la nostra storia d’amore ma la parola storia è terribile, mi fa tremare le vene, mi fa incattivire. Ma quale storia raccontare? La storia di un’emozione o di una passione. Storia. Tra noi nulla si è storicizzato. Un amore non si storicizza. Resta nella memoria dell’indefinibile.
Libero Bigiaretti in Disamore: “…il nostro amore fu dunque una vacanza nel bel mezzo della vita?”. I poeti inventano destini. Si scaldano intorno alla cenere spenta dei falò e scrivono poesie con i bagliori della stella. Non sono né testimoni né protagonisti di quel tempo che vivono. Si lasciano vivere dal tempo e cercano la durata nella bellezza.
“La tenni appena contro di me. I corpi si sfioravano. La guardavo dentro gli occhi verdi e vi vidi l’amore: chiedeva aiuto”, Giorgio Saviane in Eutanasia di un amore. La bellezza di quegli occhi, i sogni che lasciavano il mare, il desiderio che diventava immenso. La bellezza di rincontrarsi.
La bellezza. Ma se i poeti non cercano la bellezza perché dovrebbero scrivere? Quale orizzonte attraversare? L’estetica dell’evocazione è anche l’estetica del silenzio. e il poeta – scrittore non può che navigare tra le maree di queste immagini che vivono dentro di noi e ci portano altrove pur restando sempre con noi. Gli scrittori dell’evocazione nell’estetica del disincanto.
Tu che mi stavi accanto e mi parlavi della stella. Poi il silenzio. ci siamo svegliati all’alba, con le voci dei marinai che spingevano le barche sulla riva.
Ma i poeti sono i navigatori… Appunto. Verso quale letteratura? Le dimensioni dell’essere non sono strutture. Sono luoghi. Ma la letteratura che vive nei luoghi dell’essere si serve dell’immaginario dell’utopia. Un segno che potrebbe farci riscoprire il viaggio grande del mistero della parola e del mistero dei linguaggi. Quando la letteratura muore resta la dialettica che si fa polemica…