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In tempi di email e whatsApp, in cui i pochi minuti che intercorrono tra un messaggio ed il successivo paiono insopportabili, le lettere scritte su carta sembrano oggi un vezzo vintage, buono al massimo per nostalgici un po’ troppo snob oppure per irriducibili romantici che non si rassegnano alla tecnologia.

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In realtà, attraverso il sangue dell’inchiostro e la pelle della carta pulsa la vita di chi scrive e di chi legge, specie quando si tratta di lettere che esprimono un sentimento forte come l’amore; e sono proprio queste lettere a fare da protagoniste più che da fondo a “La grafomane”, il romanzo di Sophie Buyse edito nel 2009 da “La Lepre Edizioni”.

Può la parola diventare più potente della realtà?” chiede la copertina al lettore, nel libro forse non ci sono risposte, ma senz’altro abbondano le domande, quesiti di fronte ai quali tutti, prima o poi, ci siamo imbattuti, specie quando abbiamo vissuto la condizione affatto particolare dell’innamoramento.

Le lettere sono la condizione dell’amore o è invece l’amore ad essere condizione della loro esistenza?” più che il dilemma che coinvolge l’uovo e la gallina pare di esser di fronte alla questione che si chiede se è l’Osservatore a creare il fenomeno osservato, tanto che l’Autrice opportunamente nota che “La lettera è un oggetto che aiuta a riflettere, nelle due accezioni del termine”.

La passione, quale che sia il suo oggetto, a volte rende folli, ed allora è lecito chiedersi – come fa Mara Kaki, la protagonista del romanzo, se “esiste un collegamento tra i deliri epistolari del folle e la passione dello scrittore”, specie quando le due figure quasi coincidono, come nel caso di alcuni degli autori le cui lettere sono citate nel romanzo: Kafka, Artaud, Joyce, Bousquet, tanto da arrivare a credere che davvero “non ci sono, nella lettera, vere separazioni tra il sano ed il folle”.

A poco varrebbe dire (e dirsi…) che il fondo il folle è solo l’eccezione ad una regola condivisa dalla maggioranza della umanità, perché “la follia non si ostenta, ma va vissuta dal di dentro” e così ciascuno di noi può avere in sé un germe di follia che non attende altro che essere innescato.

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La cronaca abbonda di delitti compiuto sotto la spinta della gelosia e del desiderio di possesso, e allora è lecito chiedersi “come può la donna risvegliare nello scrittore un desiderio perfino più forte di quello di amarla?”; il romanzo della Buyse non fornisce una risposta ma offre una ipotesi, raccontando una storia che nasce sulla carta e per la carta e che con la carta – per certi aspetti -finisce, non certo ignorando le pulsioni del corpo, ma piuttosto considerandole come mezzo più che come fine. Un corpo sensuale, che appunto con i cinque sensi vive ed esplora sé stesso e l’altro da sé, a volte esaltando un senso, altre volte escludendo l’altro, sensi tutti coinvolti per cogliere quello che la lettera d’amore rivela (anche in questo caso, nelle due possibili accezioni del termine…) all’amante che la legge, se è vero che “le lettere ci guardano, ci parlano, ci toccano, rivelano lo stato d’animo dell’uomo , esalano il profumo della donna che le ha spedite…”, arrivando infine a poter affermare che “i nostri corpi sono quello che le nostre lettere non possono dire e le nostre lettere sono quello che i nostri corpi non possono essere”.

Il romanzo epistolare non è certo una novità, lo è forse un romanzo fatto di lettere che discorrono di altre lettere, stupefacenti nella loro quantità, considerando – ad esempio – che scrittori come Hugo, Flaubert o Bousquet hanno scritto più lettere che libri, ed ancora più sorprendenti perché “ogni lettera ha la pretesa di essere esclusiva, originale nel tentativo di affrancarsi dalla realtà dalle convenzioni e dai limiti del linguaggio corrente”, come afferma Sébastien Cassandre, l’altro protagonista di questo romanzo, che deve però fare i conti con il fatto che “la lettera è una catena senza fine. Non spegne il desiderio, mai appagato” che cerca quindi sempre soddisfazione in un ciclo ricorrente in cui si alternano il godimento della scrittura, il piacere della spedizione, lo struggimento in attesa della risposta.

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Come in ogni storia che si rispetti, anche in questo romanzo c’è un terzo protagonista, un “altro” che è una persona fisica in carne e ossa ma è anche la “parte oscura” dei due protagonisti, il “puro e folle” Parsifal che non può concludere la cerca del suo oggetto d’amore senza poi necessariamente distruggerlo.

“La grafomane” di Sophie Buyse è un romanzo che si legge e che ti legge, che obbliga chi lo sfoglia a vivere i dubbi e le esaltazioni dei due protagonisti, accompagnandoli nel loro viaggio in una Venezia lontana dalle cartoline dei turisti, umida e imprevedibile come un corpo insoddisfatto d’amore. Dimenticate le sfumature di grigio e le perversioni del Divin Marchese, mettete da parte gli ampollosi marinismi del Barocco studiati a scuola e le rime baciate dei cioccolatini di San Valentino, queste lettere Sophie Buyse le scrive col sangue, con la saliva e con lo sperma, che poi sono l’inchiostro della vita stessa.

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