Calo-Vincenzo
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Roberto Burano non è solo un apprezzato professionista nel campo medico, ma anche un attivo protagonista di molti eventi culturali che si svolgono a Grottaglie, e non solo. Dalla sua penna, mossa da memoria e fantasia, riceviamo un racconto sugli ultimi giorni di vita di Vincenzo Calò, illustre cittadino grottagliese che molto ha fatto per il progresso della sua città. Il racconto ha come titolo: “Storia di un medico che divenne imprenditore ceramico, di un figlio che divenne direttore della Scuola ceramica e di un territorio che grazie a loro riportò l’arte della ceramica agli antichi fasti” e – per la sua lunghezza – verrà pubblicato in tre parti.  Potete leggere la prima parte cliccando qui (N.d.R.)

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Vincenzo non aveva raccontato il sogno fatto, alla moglie, per non farla preoccupare; le aveva detto solamente che quella mattina avrebbe dovuto visitare una decina di pazienti che lo avevano contattato il giorno precedente. Il dottor Vincenzo Calò, pur se settantaduenne, era ancora richiesto dai suoi pazienti, solo che ora avendo abbandonata la carrozza semiscoperta tirata dal veloce e preferito cavallo nero, non andava più in giro a fare le visite mediche, ma svolgeva l’attività ambulatoriale esclusivamente a casa sua.

I pazienti che da lungo tempo conoscevano il loro dottore, lo amavano, avevano fiducia in lui e spesso la sua sola presenza serviva a lenire le loro sofferenze. Esercitava la sua professione donando la speranza della guarigione, talvolta illusoria, a chi soffriva, con la dignità e con il disinteresse di un missionario.

A riprova di questo fatto, nel suo studio faceva bella mostra di sé una medaglia in oro che il sindaco dell’epoca Giuseppe Marinaro, a nome di tutti i cittadini di Grottaglie e con delibera comunale n.27 del 17.10.1922, gli aveva conferito nel 1923 per il suo “trentottesimo anno di apostolato medico”.

Calo' Vincenzo Medaglia 2 Calo' Vincenzo Medaglia

 

Sulla porta del suo ambulatorio, inoltre, non aveva mai affisso tabelle che indicassero limiti di orario o prestazioni con tanto di tariffe. Si sentiva obbligato come da un sacro dovere verso gli indigenti e gli sventurati, quasi un novello Giuseppe Moscati; dai suoi malati nulla esigeva, anzi spesso donava, ma se non riceveva compenso in denaro, sicuramente non gli veniva a mancare la loro profonda riconoscenza.Eppure quella speranza che donava ai suoi assistiti, non l’aveva potuto trasmettere a se stesso.

Quella mattinata di sabato era trascorsa abbastanza tranquillamente in casa Calò. La stanza antistante la camera da letto di Vincenzo si era riempita di gente che, lentamente, dopo aver parlato con lui era andata via. Verso le undici Vincenzo stremato si era addormentato e subito gli era apparso in sogno padre Giovanni Semeria, il padre barnabita suo tenero amico, che aveva iniziato a consolarlo e contemporaneamente lo benediceva e lo assolveva da tutti i suoi peccati. Grazie a quella apparizione, era stato pervaso da una grande sensazione di benessere.

Aveva sorriso e ringraziato il suo amico perché aveva compreso che grazie al suo messaggio era riuscito a sconfiggere, ancora una volta, la sua grande rivale: la signora Morte. Aveva fatto suo l’aforisma del grande clinico napoletano Antonio Cardarelli “unico libro l’infermo, unico codice il cadavere”. ll suo scopo, quindi, era stato sempre quello di curare non solo il corpo, ma anche l’animo umano.

La sua vittoria era permettere ai suoi malati di superare la paura della morte e di affrontarla con coraggio, e ora anche lui era pronto al grande confronto. La morte è in grado di mettere a nudo i beni dell’anima e nel momento supremo ci fa rendere conto di quanto inutili siano gli interessi terreni e ci fa vagliare le idee per distinguere le menzogne dalla verità. Improvvisamente aveva capito che non si può varcare la stretta porta senza aver prima separato il grano dal loglio, perché non servono a nulla gli umani giudizi o le maschere al cospetto di Dio.

Si svegliò in continuo con il sonno, senza riuscire a scindere il sogno dal reale. Chiese, non vedendolo più, dove fosse padre Semeria perché doveva ricordargli di passare dal suo caro amico don Peppino Petraroli che doveva consegnargli degli aiuti ” per la sua bisognosissima famiglia”.

Il figlio Cosimo, che gli era vicino, finse di non capire, lasciando che il padre vivesse quei momenti con il suo amato immaginario; sapeva benissimo che padre Semeria era deceduto alcuni anni prima e lasciò cadere nel vuoto la domanda. Intuì la gravità del momento. Sentiva che il padre stava giocando a tiro alla fune con la morte, ed essendo spettatore di quella gara impari, si sentiva impotente. Vedeva il padre scivolare nei ricordi, sentiva che tutto poteva finire in un attimo. Allora cercò di interrompere quella partita, cercando un dialogo con il padre. Aveva paura Cosimo, aveva paura che lo sforzo di parlare potesse far perdere al padre le forze, le ultime forze necessarie alla lotta. Allora senza indugio ruppe il silenzio e chiese con foga al padre se avesse fame, celando dietro a quella domanda un grido disperato per non mollare, per rimanere attaccato alla vita.

Vincenzo rifiutò il cibo e Cosimo, dando corpo a tutto il suo smisurato amore per il padre, gli prese la mano, se la portò al petto stringendola fortemente. Contento di sentire il suo “Mimino” vicino, Vincenzo si riaddormentò ancora e questa volta in sogno gli apparve la sua grande passione: la fabbrica di ceramiche “Manifattura Calò”.

 

(… continua …)

 

 

Il presente articolo è una riduzione ed un adattamento di un’opera originale di Roberto Burano. Non è consentito l’utilizzo e la riproduzione in tutto o in parte, con alcun mezzo, di quanto pubblicato senza il preventivo ed esplicito consenso dell’Autore (N.d.R.)

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