Il 16 novembre del 1975 ci fu la beatificazione in Piazza San Pietro. Una data che ricorre e ci riporta l’umanità e la carità di un uomo che è diventato Santo.
Un “personaggio” che è stato costante nella mia vita. Ci sono emozioni e ricordi. La figura, la personalità, la parola di San Giuseppe Moscati mi ritornano con un immaginario che è ricco di ricordi e di una memoria che mi riporta costantemente a Francesco Grisi. È stato proprio Francesco a parlarmi, per la prima volta, della statura di uomo e di santo di Giuseppe Moscati. Spesso si dimentica di San Giuseppe Moscati. Il Santo nobile che per voto fi umiltà e povertà abbandonò le sue besti nobili e ricche.
Frammenti di un mosaico in cui le rimembranze toccano le corde della nostalgia. Anni difficili per noi intellettuali non conformisti, per noi che provenivamo dalla scuola di Prezzolini, di Eliade, di Papini, di Paratore, di Ernesto Bonaiuti, di Diego Fabbri e di poeti come Ezra Pound e Robert Brasillach, di Vincenzo Cardarelli o di Iacopone da Todi. Erano gli anni che frequentavamo Benevento, la città di Benevento.
Allora, mi riferisco ai primi anni Ottanta, a Benevento si celebrava un importante Premio letterario legato sempre ad un convegno sul ruolo della cultura o della letteratura tradizionalista che trovava nel sacro una delle chiavi di lettura per tentare di confrontarsi con la modernità.
In una delle nostre passeggiate notturne Grisi si fermò davanti ad un portone, piccolo portone, e ad una casa. Con un impatto deciso disse: “Sai, qui, in questa casa, è nato un Santo. Prima o poi lo faranno Santo. Oggi è solo Beato. Si chiama Giuseppe Moscati. Questa è stata la sua prima abitazione. Si fermò qui pochi anni perché tutta la famiglia si trasferì a Napoli. Il padre era un magistrato. Pochi anni e poi Napoli. Benevento non lo ha dimenticato. Poi ti racconterò una storia su questo Giuseppe Moscati che è ricordato come il medico dei poveri. Aveva una forte personalità. È morto il 1927. Lo stesso anno della mia nascita. Lui moriva il 12 di aprile. Io invece ero nato il 9 maggio dello stesso anno”.
Andammo più avanti. Mi parlò ancora di Giuseppe Moscati. “Se fosse vissuto nell’età dell’epoca dei templari, mi disse sempre Grisi, sarebbe stato un medico templare e avrebbe fatto costruire tanti ospedaletti non solo in Italia. Mi ha sempre affascinato per un fatto preciso. Credeva alla scienza ma sentiva che la carità era più della scienza. Lo ha anche scritto in una sua lettera. Ci sono momenti in cui si ha bisogno di carità più che di scienza. E questo me lo avvicina al nostro San Francesco di Paola ma anche al Beato Bartolo Longo”.
Mi aveva citato due nomi sui quali spesso, Grisi, in quegli anni ripercorreva segni del suo pensiero. Eravamo stati più volte a Paola e al Santuario di San Francesco ma anche a Pompei. Qui acquistò un libro sulla storia della Madonna di Pompei e un catalogo su Bartolo Longo.
“Ti serviranno, un giorno, mi aveva detto, per capire non la religiosità e neppure la teologia, la teologia, provocatoriamente mi aveva lanciato questa parola, non serve per capire la santità e non serve neppure ai Santi, ma per penetrare il mistero. Bartolo Longo è nel mistero come lo è Giuseppe Moscati”.
Bartolo Longo e Giuseppe Moscati non solo si conoscevano ma erano stati molto vicini, in confidenze spirituali e in racconti di cristianità. L’uno avvocato e l’altro medico. Ma Giuseppe Moscati ritorna spesso nella vita di Grisi.
Negli ultimi anni della sua vita era ritornato a riflettere su Iacopone da Todi, su San Francesco d’Assisi e cesellava costantemente gli scritti di Giovanni Paolo II, tanto che curò un libro di Pensieri del papa, e leggeva le vite di Giuseppe Moscati. Il 25 ottobre del 1987 Giovanni Paolo II proclama Santo Giuseppe Moscati.
Qualche giorno prima ricevo una telefonata da Grisi. Era, comunque, un sentirci quasi quotidiano.
Il 23 ottobre mi dice: “Ti aspetto. Domani devi essere a Roma. Non vado in piazza, in Vaticano, se tu non mi accompagni. Tra due giorni il polacco Papa proclamerà Moscati Santo. Tu devi confonderti con me nella folla e poi penseremo al nostro convegno su ‘Religiosità e letteratura’. Ho letto il tuo articolo su Clemente Rebora e mi ha toccato. Lo sai perché? Perché vado convincendomi che a volte si è più cristiani da laici che da religiosi. Ma questo è un altro discorso. Ti aspetto”.
Dopo la proclamazione in Vaticano tornammo più volte a Benevento per i nostri impegni culturali. E il nostro appuntamento era sempre davanti alla casa di Giuseppe Moscati.
“Moscati, mi disse un giorno a Napoli davanti alla chiesa di Gesù Nuovo, la chiesa dove il viaggio del Moscati riemerge tra reliquie e appunti di memoria, è un Santo moderno che ha cercato di intrecciare la liturgia della teologia con una testimonianza fatta di gesti, di azioni, di parole. Mi capita spesso di leggere pagine di lette di Moscati o appunti ma non riesco ancora a scrivere una cosa che possa avere una sua omogeneità o una sua articolazione. È un personaggio che mi cattura come incastro narrativo ma non riesco ad andare oltre ed ha una santità che mi toglie la capacità di riflettere per scrivere una pagina che abbia senso. Non ho avuto difficoltà con Iacopone, tanto meno con i due Santi: quello di Assisi e quello di Paola. Moscati è come se mi intimorisse. È come se mi osservasse. Il suo sguardo è pungente. Ma anche ironico”.
Giuseppe Moscati era nato nel 1880. Il 25 di luglio. Benevento e Napoli sono le sue due città – luogo. Ma è a Napoli che la sua esperienza si focalizza. Come studente, come medico, come docente. Laurea in medicina a pieni voti. Ma al di là della sua biografia fatta di cronaca e di atti ciò che vive nel cuore dell’uomo è il senso di una profonda cristianità che chiama, come già si diceva, carità. Proprio su questo concetto più volte Francesco Grisi è ritornato con delle parole splendide.
“La carità, mi diceva Grisi, di Moscati è una espressione non solo dell’anima ma anche dello sguardo. Il suo sguardo è una attenzione verso l’anima. La malattia non è soltanto una ferita fisica. La malattia si guarisce con la ricerca, con la scienza, con le medicine, con gli interventi ma il cuore si armonizza con l’amore. È su questo che insisteva il Santo dei poveri. La povertà nella preghiera. Spendere il tempo nella speranza è spenderlo cercando e aspettando Cristo. Non bisogna mai perdere la speranza perché c’è sempre la Provvidenza, la mano di Cristo. E Moscati appuntava questo pensiero nelle sue lettere, nel suo ancorarsi al coraggio, nel fare sempre delle scelte per il bene. Il bene verso gli altri e per gli altri. Ricordalo come il Santo necessario alla misericordia di cui abbiamo bisogno”. Così mi sottolineava Grisi.
Ho letto e riletto molti libri su Giuseppe Moscati. Ho letto pagine dove le sue lettere e le sue annotazioni sono presenti. Moscati parlava spesso di “fortezza”. Già, essere forti nella consapevolezza.
In un suo accenno Moscati dice: “Non bisogna accasciarsi, ma mettere in pratica una delle quattro virtù cardinali, la fortezza. Accasciarsi significa giustificare le ragioni che gli altri accampano per imporci un orientamento piuttosto che un altro”.
Un preciso riferimento a non perdere mai la speranza e vivere la fiducia. Un segno tangibile di come la vita nelle difficoltà andrebbe vissuta.
Non c’è la storia in sé, in Moscati, ma una storia che si fa provvidenza. Perché è convinto, come si legge in una sua lettera, che “Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini sono passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto livello di vita, se si dedicheranno al bene”.
Ed è proprio su questo binomio dialogante tra scienza e fede che si è soffermato Francesco Grisi negli ultimi mesi della sua vita, quando scopre di essere stato colpito dalla malattia. Si chiude in una contemplazione ripetendosi le parole di Giuseppe Moscati. E lo fa con una tale dolcezza che la commozione si fa emozione.
Grisi portava con sé sempre una immaginetta di San Giuseppe Moscati, con il suo camice bianco e nel retro una preghiera. Il giorno prima che andasse in coma Francesco mi consegnò molti suoi effetti personali e tra questi anche un portafoglio dove c’erano soltanto appunti, biglietti di autobus di Roma, e alcuni santini.
Oltre a San Francesco di Paola e a Padre Pio vi erano due santini di Giuseppe Moscati. Una terza immaginetta di Moscati la stringeva sempre in una mano.
Qualche anno prima mi aveva detto che gli era venuto in sogno Giuseppe Moscati ed aveva intrattenuto un dialogo sui temi della morte, della malattia e della parola.
“Sai cosa ricordo soltanto, mi aveva detto Grisi, di questo sogno?”. Che cosa? “Non posso avere paura della morte per ora, non devo. Cesserò di vivere quando i miei ultimi numeri della mia data di nascita si invertiranno”.
Cosa significa? “Io sono nato il 1927. La data di morte di Giuseppe. Invertendo gli ultimi due numeri arriverei a 72. Vivrò fino a 72 anni”. Chi ti ha detto questo? “Un segreto. Il sogno è sempre un segreto. Lo capirai con il tempo. Ora mi devo sbrigare a scrivere l’ultimo libro”.
Questa confessione Grisi la fece nel 1993. L’anno di pubblicazione de “La poltrona nel Tevere”. Stava lavorando ad articolare un libro di saggi sugli scrittori cattolici e stava pensando anche ad un saggio dal titolo: “Dall’eresia all’utopia”.
Francesco Grisi muore nel 1999. Ovvero a 72 anni. Perché quel sogno nel quale campeggia la figura del medico santo Giuseppe Moscati?
In questi anni mi sono posto più volte questo interrogativo. Rischio una risposta. Rischio di colmare un viaggio nel mistero. Cerco di capire. Ma non c’è niente da capire. C’è bisogno di fortezza perché solo la carità potrà riempirci di senso.
Tutto si compie per amore. Diceva Giuseppe Moscati. È proprio vero se siamo convinti con Giuseppe che “La vita non finisce con la morte, continua in modo migliore”.
Ed è lo stesso messaggio che ci lascia Grisi nel suo libro incompiuto dal titolo “La dolce compagna”. La malattia come dolce compagna che ci porta oltre.
La lezione di Moscati in Grisi ha avuto una forte valenza, la fortezza, umana, spirituale, ontologica. Ma il mistero è sempre oltre. Quella dolce compagna risente di una testimonianza vivificante che è nella vita e nelle azioni di Moscati.
Il santo in camice bianco del sogno è un mistero nel sacro della vita che chiede rivelazioni. Ritorna spesso nei miei pensieri: la sua immagine, le sue parole, il suo ritratto. Sono nel mio viaggio di uomo, di un uomo che cerca di capire il rapporto tra la grazia e il perdono (ammesso che possano rientrare in una via della spiegazione) queste parole: “Ama la verità, mostrati quale sei, senza infingimenti, senza paura e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, tu accettala; e se tormento, tu sopportala. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, tu sii forte nel sacrificio”.
Una cristianità profonda nella quale la Croce non è solo un simbolo ma la forza di un quotidiano che ci deve permettere sempre di andare oltre in un tempo le cui lacerazioni vivono anche nel Tempio sacro.