Nel mio “Giuseppe Berto. La necessità dello scrittore”, ho cercato di puntualizzare un percorso che supera completamente quello degli scenari realistici per sottolineare l’importanza di una profonda metafisica che è perno nell’opera dello scrittore de “La Gloria”. C’è da sottolineare che la letteratura del Novecento non può non fare i conti con l’inquieto dell’uomo in rivolta.
È un dato certo che nello scavo esistenziale della contemporaneità ci sono le griglie dei miti che si confrontano. Così in Giuseppe Berto. Se a parlar di Giuseppe Berto l’itinerario puramente letterario trova il suo tracciato tra i personaggi ricostruiti e quelli inventati, l’io dello scrittore si sdoppia, non di tratta soltanto di entrare in un campo psico-analitico, proponendosi come attore e spettatore.
Ma Berto scavando e recuperando una vita, la sua, porta sul teatro dell’esistenza il coinvolgimento tra cadute estraniamento. Questo estraniarsi è un sentirsi e viversi come straniero. Assorbe sostanzialmente tutto il ritmo della inquieta sorte che non è il male oscuro, ma diventa un vizio assurdo.
In fondo, Giuseppe Berto vive l’agonia e l’inquieto esistere tra Cesare Pavese e Albert Camus. Non è soltanto uno spazio letterario che si ritrova in Berto o un cercare l’intreccio tra la parola e l’anima in una forma di terapia d’analisi, bensì di avverte una filosofia dell’anima che si intreccia tra la metafora della scrittura come frontiera da contrapporsi alla realtà e un vero e proprio concetto di metafisica. I personaggi che lo attraversano sono destini e avventure della sua coscienza in un timor panico che di legge nelle parole e negli occhi dei personaggi.
I personaggi assumono griglie ad intreccio. Si pensi alla forma e alle strutture che mette in campo. Dalla confessione al diario al dialogo. Ma è sempre lo scrittore che cerca una vera uscita di sicurezza dentro la letteratura stessa, perché la letteratura diventa alla fine l’unica possibilità vera o la vera possibilità per sconfiggere il Caso. Berto ha vissuto tutte le contraddizioni di un novecento sconfitto, ma mai perdente con le tradizioni e i suoi conflitti dentro le agonie, che, per uscire dalla possibile morte, il personaggio e l’uomo vivono la rivolta.
Berto è realmente un uomo in rivolta come li è stato Camus. Entrambi appartenenti ad una stessa generazione il primo nato nel 1914 e il secondo nel 1913. Uomini che hanno fatto della rivolta una chiara metafisica dell’anima e della loro confessione un genere letterario (Zambrano).
Nella metafisica dell’anima c’è la condizione dell’esilio dell’uomo moderno nella crisi tra il concetto del finito, papiniano, e dell’infinito.
Entrambi chiedono al sacro di non assentarsi. Giuda in Berto. La devozione e la Croce in Camus. Tra i due è sottile il senso del tragico. Qui, sia in Berto che in Camus il vizio assurdo di Pavese diventa centrale. Ma Pavese è lo spartiacque ma anche il legame tra il vivere la vita nel non dimenticare la inquieta sorte. Il destino. Il mistero. Il sacro. Tra “Dialoghi con Leucò”, “Anonimo veneziano” e “L’uomo in rivolta” c’è uno spazio – luogo che è il Mediterraneo.
L’uomo tragico, l’uomo in rivolta, l’uomo finito (non quello papiniano ma quello di Pavese) navigano inquietamente il Mediterraneo del Novecento dentro le civiltà perdute e ritrovate. Il Mediterraneo è un’espressione di orizzonti nei processi esistenziali che si articolano nel nostro tempo. Quella metafisica dell’anima ha una visione letteraria certamente, ma ha una puntualizzazione soprattutto spirituale. Berto è uno scrittore ribelle, che riesce a portare sulla scena una rivolta che è tutta metafisica.