Giuseppe Tomasi di Lampedusa moriva il 23 luglio del 1957. Sessant’anni fa. Nel 1958 veniva pubblicato Il Gattopardo. Un romanzo che secondo Carlo Bo “rappresenta un miracolo: quello di un libro ricco di cultura letteraria che riesce a raggiungere l’animo popolare”.
Rifiutato da Elio Vittorini. Sia dall’Einaudi che da Mondatori. Trova ospitalità dalla Feltrinelli. Ma chi ha creduto immediatamente nelle pagine di Tomasi di Lampedusa è stato Giorgio Bassani. La prima tiratura del libro è di tremila copie. La seconda è di quattromila, sempre nel 1958. Il resto è nella storia di questo romanzo. Nel 1959 vince il “Premio Strega”. A presentarlo sono Ignazio Silone e Geno Pampaloni. Asor Rosa lo ignora nella letteratura italiana dell’Einaudi.
Intorno alla fine del 1954 Tomasi di Lampedusa comincia a stendere le prime pagine. La metafora della memoria lo cattura. Nei luoghi della mia prima infanzia incide: “Quando ci si trova nel declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro ( Rousseau, Stendhal, Proust), ma a tutti dovrebbe essere possibile preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto”.
Il messaggio è chiaro. I luoghi, i personaggi, i dialoghi, il pensare sono già consapevolezza di un trapasso tra vita e letteratura. I ricordi diventano l’invenzione lungo il tragitto narrante. Ci si impossessa di un parametro fortemente esistenziale e il “rifiuto della storia”, per parafrasare un saggio di Gian Paolo Marchi dedicato a Verga e il rifiuto della storia, è un ritmo che cesella la psicologia dei personaggi più che la rappresentazione e la chiusura di un tempo cronologico, che non può conoscere l’essenza della memoria come fatto rivelatore. La rivelazione delle immagini stesse è la trasformazione della storia come susseguirsi di atti cronologici in tasselli di una memoria che coinvolge il tempo come percezione e l’avventura dei personaggi come segni di una indelebile spiritualità. Si legge Il Gattopardo nel dialogo costante tra l’io narrante e il narrato. Il Principe e lo scrittore sono la voce e il destino.
I tre contesti che caratterizzano Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e formano il percorso narrante anche sul piano delle finalizzazioni politiche sono il 1860, il 1885 e il 1910. Ma questo romanzo si presta ad una chiave di lettura che non è soltanto storica, politica, ideologica. Non è soltanto un romanzo che pone all’attenzione la questione incompiuta di quella nascita di unità nazionale che viene disegnata e sottolineata nel corso i tutta l’impostazione tematica. Giuseppe Tomasi di Lampedusa è, comunque, uno scrittore che fa i conti costantemente con la storia, ma in questa storia c’è una prevalenza tridimensionale della memoria. Vediamo come.
I fatti vengono raccontati attraverso una rivisitazione nella quale prevale energicamente il ricordo. La storia, pur fissando delle fasi cronologiche, si serve del ricordo. Quindi viene meno la storia come momento di pianificazione della ragione. Nel ricordo prevale il racconto come sentimento. O meglio: negli avvenimenti che si intrecciano la forza trainante non è la logica della giustificazione storica ma è il sentimento come coscienza popolare che prende il sopravvento. Questo è già il primo aspetto. Ne subentra un secondo. La storia come ricordo non avrebbe senso se nei personaggi, che si agitano sullo scenario, mancasse l’avventura del destino.
Ogni personaggio recita la sua avventura perché recita un’appartenenza d un destino. È in questo destino che si intravede l’incontro tra la reiterpretazione del passato e la tragedia del futuro. Il caso emblematico è quello del Principe Fabrizio. Nel paesaggio storico di un destino epocale avvengono due ulteriori trapassi. Quello che coinvolge totalmente la fine di una civiltà e l’inizio di un nuovo modello. Quello che segna la fine di una nobiltà e l’inizio di una nuova aristocrazia o meglio di una nuova borghesia ( il caso di Sedara). In questo secondo aspetto c’è un coinvolgimento che avrà i suoi effetti sia in termini storici che sociali (Tancredi e Angelica rappresentano la nuova visione del mondo). Nel terzo aspetto, invece, è da sottolineare la presenza, non singolare ma assidua, del paesaggio siciliano.
E la Sicilia è sostanzialmente parte integrante di tutta l’avventura che si compie nel romanzo e può avere una spiegazione sia su un versante prettamente storico sia su un versante in cui letteratura e appartenenza al luogo costituiscono in questo caso specifico una valenza mitica. Il paesaggio della Sicilia in tutte le sue fasi storiche menzionate nel romanzo rappresenta l’humus esistenziale e culturale. Così si legge : “In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono di ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede lì sul colle a dieci minuti di strada, in quest’isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero la riservatezza è un mito”.
E se la riservatezza è un mito, il silenzio e il sogno costituiscono, per Don Fabrizio, la presa d’atto di una tragedia che visualizza un rapporto tra caduta della nobiltà, perdita di identità e prevalenza di nuovi ceti. La Sicilia come metafora, ma anche come spiegazione di una dimensione storica e politica. La tragedia di una civiltà è il senso di decadenza, che si ascolta dalle parole che Don Fabrizio dice a Chevalley.
Così: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre che li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente : la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti si scorzonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia sfruttare gli enigmi del nirvana. (…) …le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto”. Si tratta di una sottolineatura importante.
C’è all’interno una spiegazione storica e culturale. È la spiegazione di tutto e tutti vi trovano il loro intreccio tra destino e memoria, appunto.
La Sicilia e i Siciliani. È un richiamo che spesso ritorna tra le parole di Don Fabrizio. Un richiamo che suona come metafora ma anche come interpretazione di un profondo processo culturale. La tristezza e il suono di tragedia si avvertono, non tanto perché si è alla fine di un ciclo, quando ci si rende conto di quella coscientizzazione epocale, che coinvolge tutto il popolo meridionale. La tragedia e l’ironia del Principe sono già di per sé l’indicazione di una sofferenza che è la sofferenza di una antica sopportazione di tutto un popolo. “…i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti”. Ma il dato ideologico entra dentro il processo storico di quegli anni. Don Fabrizio dice: “Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due”.
Indubbiamente, la figura di Don Fabrizio campeggia e traccia percorsi all’interno del romanzo. Il Gattopardo d’altronde non è un romanzo che ha una sua specificità narrativa. È un romanzo di ritratti e di fissazioni di immagini. Si pensi anche al capitolo dedicato a Padre Pirrone o all’ultima parte. Si pensi al capitolo tutto offerto alla morte del Principe.
Il corteggiare la morte, è avere presente la sensualità della vita. La morte del Principe annuncia la fine di tutto ma è oltre la passionalità per la vita. Il capitolo dedicato al ballo è un preavviso di fine ma è anche l’angoscia di una perduta sensualità. Vi resta l’ironia. Quel capitolo dedicato al ballo è il tocco magico dell’eros ma è anche una marcata sottolineatura ironica.
C’è un’ironia che lascia il segno. Giorgio Barberi Squarotti scrive : “un’ironia incisiva, crudele, corrosiva nella sua misura critica di spietata chiarezza” è dentro il romanzo. Un’ironia che diventa “dimensione del narrare” anche perché il senso di morte che accompagna i personaggi si lega con la memoria della morte che attraversa la storia del romanzo. E la morte è come l’eros. Don Fabrizio vive con la memoria della morte guadando però a Tancredi e ad Angelica che rappresentano l’eros. Angelica è l’eros.
Il Gattopardo “è un libro di morte scritto da un disilluso amante della vita. In quanto tale è destinato a restare, sgombro degli eccessivi pesi di cui si volle caricarlo”, afferma Francesco Paolo Memmo.
Non c’è alcun paradosso in Tomasi di Lampedusa. È uno scrittore che ha assorbito quella consapevolezza di un trapasso epocale. Un viaggio che non interessa un fatto storico soltanto. Ma dietro e dentro la coscientizzazione epocale c’è il vissuto di una generazione e, quindi, in questo caso, c’è la responsabilità di un “tempo perduto”. In un suo racconto si può leggere : “Quando ci si trova nel declino della vita è imperativo cercare di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo”.
Consapevolezza del tempo che è fuga e sradicamento di identità in una civiltà nuova che avanza e chiede di essere ascoltata. Allora i temi hanno una loro chiarezza sul versante storico, sul versante letterario, sul versante esistenziale.
C’è un tema di fondo che ha un interesse comune ed è quello che si gioca tra la sensualità della vita (eros e morte si dichiarano) e la morte, assiduo pensare alla fine. Lo spaccato è rappresentato, appunto, dalla memoria, che diventa il filo che lega tutte queste metafore. Perché oltre la storia con i suoi eventi e i suoi fatti ciò che rimane è una profonda dichiarazione letteraria, che può essere letta solo se si visualizzano quelle dimensioni simboliche, che ci raccontano il tutto come metafora del tempo, dell’eros e della morte.
La bellezza di Angelica è la metafora dell’eros. La tragedia della morte è il declino di Don Fabrizio al quale si unisce la fine di un’epoca che solca destini. Ecco la metafora del corteggiamento della morte. Barberi Squarotti parla di “grande poesia della morte”. Ma la poesia della morte apre, indubbiamente, un altro capitolo, che è quello del “rifiuto” della storia. “Il rifiuto della storia, scrive Franco Fortini, non è rifiuto di questa o quella storia ma rifiuto del mutamento in sé”. Un mutamento che vive, comunque, dentro la ricerca di una memoria, che è sempre presente tra le parole non solo di Don Fabrizio. In realtà il Principe, come sottolinea Francesco Grisi, “non si preoccupa di quello che avvilisce gli altri perché il suo mondo non è nella terra, ma della siderea infuocata natura e della dolcissima e trasparente creatura da tutti temuti : la morte”.
Morte e bellezza. “Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari”. La morte come bellezza. Ma forse come cominciamento di una nuova avventura.
Il teatro e la recita sono nel ballo. In quel ballo in cui Don Fabrizio misura se stesso respirando sui capelli di Angelica e assaggiando la gelosia di Tancredi. La giovinezza ferita. Il tempo lacerato. La storia che riprende il suo corso. Davanti ad un mondo in decadenza la morte è l’unica risoluzione perché è, giustamente, oltre la realtà. E Don Fabrizio è conscio di ciò. Misura se stesso rappresentandosi in quel ballo con Angelica. L’ “aroma di pelle giovane e liscia di Angelica è appunto la misura del tempo. Il ballo che alla fine resta anch’esso una metafora sprigiona un ‘influsso sensuale’”. È la vita che recita la sua eredità tra l’amore dei due giovani e la sopportazione della maschera. Il Principe indossa una maschera. Viene lacerato dal destino. L’unica cosa che lo rende vitale è la memoria. Questa sua memoria è in una attesa che lo accompagna verso appuntamenti. Chiede un’“appuntamento meno effimero”. Così anche la morte diventa interiorizzazione della metafora.
Il Gattopardo raccoglie sviluppi tematici e ricerche spirituali, sul piano letterario ed umano, già in parte espresse negli scritti precedenti e in quei primi scritti che si riferiscono ad alcuni articoli apparsi sulla rivista mensile “Le Opere e i Giorni”. Risalgono al 1926 – 1927. Sono dei saggi critici su Paul Morand, poeta francese (1888 – 1976), sul poeta irlandese W. B. Yeats (1865 – 1936) e su Friedrich Gundolf ovvero Friedrich Gundelfinger (1880 – 1931), storico e critico tedesco. Di quest’ultimo Tomasi di Lampedusa prende in considerazione il suo scritto su Cesare.
Tre scritti importanti che serviranno da base per le sue ulteriori riflessioni in questo campo. I temi che incontriamo nel suo viaggio letterario ed esistenziale trovano qui, in questi saggi, una loro premessa. Il superamento della storia come elemento materiale e come affermazione simbolica e allegorica, soprattutto, nello scritto su Cesare di Gundelfinger ha già una interpretazione emblematica nei termini di un rapporto tra biografia e memoria.
In questo suo saggio dirà : “Esistenze come la sua hanno diritto a due biografie : una limitata per quanto gloriosa che si riferisca alle gesta compiute dal corpo e dalla mente viventi; l’altra senza confini di tempo e di spazio, che narri l’aggirarsi dell’ombra smisurata e le conseguenze delle sue apparizioni. Quella la storia della vita; l’altra la storia della gloria”. E ancora : “ Cesare, da venti secoli lontano nella carne, da venti secoli presente nello spirito”. Un’immagine che ci rimanda immediatamente alla figura del Principe.
Il Gattopardo-Principe potrebbe leggersi anche come la metafora di un Cesare che non si lascia imprigionare dalla storia – cronaca ma si impossessa sempre più del tempo – memoria. Andrea Vitello ha scritto un libro importante e robusto su Giuseppe Tomasi di Lampedusa (il cui titolo rispecchia fedelmente il nome dello scrittore) pubblicato nel 1987 e pone in evidenza proprio un aspetto similare, sottolineando: “Il saggio cesariano e il romanzo sono lontani nel tempo; eppure psicologicamente, sono vicini. Quel saggio giovanile appartiene alla biografia spirituale di Lampedusa quanto e come Il Gattopardo”. Un percorso in cui il tempo fuori dalla storia diventa una fissazione di una riproposta autobiografica nella quale il passato ha dei luoghi e dei nomi precisi. Dalle eredità familiari alla casa andata distrutta. Un passato che si intreccia con la nostalgia e il tempo è nell’espressione proustiana delle cose che non ci sono più ma che restano come baluardi nel sentimento dell’uomo.
Non è condivisibile da questo punto di vista l’affermazione di Romano Luperini quando sostiene che in Tomasi di Lampedusa “storia e realtà non sono che fluidi fantasmi, fenomeni di un’essenza, che è il nulla”. Quell’essenza non è più il nulla. In una concezione materialistica potrebbe essere considerata tale. Ma è il rafforzamento di una testimonianza spirituale che trova il suo codice più alto, appunto, nella religiosità della memoria. Senza di essa non avrebbe senso la storia stessa perché il racconto o il raccontare è il superare, è il ritrovare, è il rimpossessarsi di una malinconia, che permette di creare e di raccordare il tempo dello scrittore con il tempo e lo scenario, le sensazioni e le atmosfere del raccontato stesso.
Questo intreccio pone un consolidamento letterario e spirituale sul piano della riappropriazione dei ricordi, i quali costituiscono l’anima di un tempo che è storico ma principalmente interiore. In questo gioco c’è il significato dei ricordi dell’infanzia. In fondo Il Gattopardo ritrova in sé la fantasia e i “fantasmi” dell’infanzia, che permettono di leggere la vita attraverso il cannocchiale di un legame tra “memoria” e “invenzione”.
Proust è stato importante per Tomasi di Lampedusa. Oltretutto perché il tempo perduto diventa nei luoghi, nei sentieri e nella coscienza della memoria tempo ritrovato. E a sancire questo rapporto o questo protocollo esistenziale è appunto la scrittura, ovvero la letteratura. Il ricordo è i ricordi e questi sono la memoria e la memoria non è soltanto nel tempo ma è il Tempo. Il passato è la coscienza, dunque, che ci permette di rivivere il perduto nella metafora della vita.
In Tomasi di Lampedusa non ci sono soltanto sensazioni che danno voce alla scrittura. Ci sono perdite reali. Come la casa. Una casa distrutta è la casa distrutta. E quella casa era l’infanzia. Una stagione del tempo che si è dilatata nel tempo – memoria. La casa – infanzia è la scomparsa non di un ricordo, ma di una storia che non è più possibile reperirla se non attraverso la visione – simbolo di un ancoraggio alla letteratura – conchiglia. Cioè alla letteratura che custodisce ciò che Corrado Alvaro chiamava “mondo sommerso”
In alcune lettere scritte all’amico Guido Lajolo che era andato a vivere in Brasile (che il settimanale L’Espresso” ha pubblicato a cura di Giuseppe Carrieri l’8 gennaio del 1984) alla data del 31 marzo 1956, Tomasi di Lampedusa, annota : “Il protagonista è il Principe di Salina, tenue travestimento del Principe di Lampedusa mio bisnonno. E gli amici che lo hanno letto dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me stesso. (…) Vi sono molti ricordi personali miei e la descrizione di alcuni ambienti è assolutamente autentica…”. Nella lettera del 7 giugno si trova sottolineato : “ … il protagonista sono i, in fondo, io stesso e il personaggio chiamato Tancredi è il mio figlio adottivo”. Nella successiva del 2 gennaio 1957 si può leggere : “Non vorrei però che tu credessi che è un romanzo storico! Non si vedono né Garibaldi né altri: l’ambiente solo è del 1860; il protagonista Don Fabrizio, esprime completamente le mie idee, e Tancredi, suo nipote, è il ritratto di Giò in quanto all’aspetto ed alle maniere; per ciò che riguarda il morale Giò è, per fortuna, assai meglio di lui. // In quanto ai ‘Vicerè’ il punto di vista è del tutto differente: il ‘Gattopardo’ è l’aristocrazia vista dal di dentro senza compiacimenti ma anche senza le intenzioni ribellistiche di De Roberto”.
È chiara la manifestazione che emerge da questa lettere. Autobiografia, superamento della storia, superamento, in termini critico- letterari, del naturalismo – verismo. È una chiave di lettura significativa perché sposta definitivamente l’attenzione dalla storia ai personaggi, dalla realtà alla memoria. In un ricordo di Gioacchino Lanza Tomasi (il figlio adottivo) apparso su “Tuttolibri” supplemento al quotidiano “La Stampa” si legge: “ Il problema autobiografico del Gattopardo va a mio avviso connesso a quanto rivela nella lettera a Lajulo. Ed abbiamo allora un esempio di autobiografia del lutto particolare…(…) Di qui la costruzione del romanzo di famiglia quale favola personale della propria famiglia, in cui i sogni di desiderio sono liberi di intessere trame di passioni appagate. Nell’opera letteraria si sarebbe attuata l’utopia consentita…(…) Come uomo sapeva di aver risolto nel romanzo il proprio problema esistenziale, sapeva di aver riacquistato attraverso il romanzo una identità che gli appariva per l’innanzi sfuggente”.
Osservazioni che riconducono il discorso al rapporto tempo, letteratura, uomo. E così commenta Andrea Vitello : “In questa orgia di parole d’inchiostro (…) i nemici più sinceri sono i marxisti, i cattolici e i neorealisti: Il Gattopardo veniva fuori in tempi di euforia economica ma di crisi del romanzo, quasi per scoraggiare ogni impegno etico nonché politico, e per favorire una restaurazione dello stile”. D’altronde, per riaffermare un codice storico, questo romanzo, per dirla con le parole di Gioacchino Lanza Tomasi, aveva “distrutto il mito del Risorgimento, come Le mie Prigioni l’aveva costruito”.
In questo insieme se da una parte troviamo la presenza di Proust e quella di Stendhal, al quale aveva dedicato un saggio apparso nel 1959 su “Paragone” e poi come monografia nel 1977, dall’altra parte si impone la presenza di Thomas Mann con quell’alone di decadenza e di lutto appunto. Per essere creatori, diceva Mann, bisogna esser morti. Ebbene il Lampedusa – Salina ricrea il suo mondo dalla consapevolezza della fine. La chiusa della settima parte del romanzo condensa il fascino della morte: “Era lei la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo : strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così pudica e pronta ad essere posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. // Il fragore del mare si placò del tutto”.
Metafora? Metafora e fatalità. Ma è più giusto dire che si tratta dell’indefinibile viaggio del destino. La compiutezza del destino è nella inafferrabilità del tempo. Del tempo – memoria che si intreccia tra i suoni e le voci e nel naufragio di ogni esistere. Il Principe viveva il naufragio perché era completamente attraversato dalla corrente del tempo. Ed è il tempo che vive il naufragio e non la storia.
Compiutezza del destino e inafferrabilità del tempo. Ma è proprio questo che ci rivela la indefinibilità dell’esercizio storico. Il segreto del Principe rende incompiuto il destino e lo stesso mistero del tempo. Nelle Lezioni di Stendhal scrive : “… è facile proporsi di rappresentare se stessi o la propria controfigura in modo lirico. È assai meno facile riuscire a farlo in modo compiuto, mostrando i propri anditi segreti, le proprie contraddizioni, le sfumature innumerevoli nelle quali si atteggia una personalità”.
Il capitolo del ballo è, indubbiamente, come è stato accennato precedentemente, una metafora che permea tutto Il Gattopardo, ma dentro questo scenario si consumano altre immagini. Ecco uno spaccato di Tancredi e Angelica. “Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro tempo, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione”.
Il destino e il tempo sono la misura dell’intreccio tra la richiesta di spiegazione della storia e la “riservatezza del mito” che coniuga memoria e morte. È forse questo l’epilogo nel quale Tomasi di Lampedusa storicizza il tempo definendo la verità della poesia nella memoria. Un ancoraggio in cui i fantasmi che occupano gli anni, il passato e il quotidiano possono essere esorcizzati. E il tempo non si rappresenta, lo sapeva bene il Principe, ma si interiorizza, si afferra, si spiritualizza e si decodifica proprio in ciò che Lampedusa metaforizza in questa immagine : “…in quest’isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero, la riservatezza è un mito”, come è stato già ricordato.
Il sentire della metafora in Tomasi di Lampedusa congiunge il tempo – eros al tempo – morte. Ciò lo si verifica non solo ne Il Gattopardo ma anche in I luoghi della mia prima infanzia e in alcuni Racconti. È Il Gattopardo, comunque che richiama costantemente il tempo – eros intrecciandolo quasi sempre al tempo – morte – memoria.
La figura di Angelica che andrà sposa a Tancredi (nipote del Principe) occupa in modo particolare la recita dell’eros. Ciò lo si avverte già dalle prime battute in cui è presente la bella Angelica. Quando il Principe chiede a Don Ciccio di parlargli di Angelica la descrizione va in questa direzione : “…i suoi occhi, la sua pelle, la sua magnificenza sono esplicite e si fanno capire da tutti. Credo che il linguaggio che parlano sia stato ben compreso da Don Tancredi; o sono troppo maligno a pensarlo? In lei c’è tutta la bellezza della madre…”. E la madre era stata definita da Don Ciccio in questi termini : “una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta”.
Angelica percorre le pagine del romanzo sempre con una sensualità appagante e i suoi occhi sono sensibili alla gentilezza. Sa di essere bella e osservata. Si pensi all’entrata nella sala da ballo: “Angelica giunse alle sei di sera in bianco e rosa; le soffici trecce nere ombreggiate da una grande paglia ancora estiva sulla quale grappoli di uva artificiale e spighe dorate evocavano discrete i lignite di Gibildolce e i granai di Sottesoli”.
Si pensi ancora all’attraversamento del palazzo di Donnafugata che i due innamorati intraprendono. Una stanza dentro l’altra. Sembra una corsa per uscire fuori da un labirinto. La sensualità di Angelica nel palazzo riportava alla luce immagini sbiadite e ricordi di amori e di passioni consumate in quelle stanze. Si legge: “Di nudità erotiche nel palazzo di Donnafugata non era il caso di parlare ma vi era copia di esaltata sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta. Il palazzo dei Salina era stato ottant’anni prima un ritrovo per quegli oscuri piacere nei quali si era compiuto il Settecento agonizzante”. Il palazzo restituiva quell’antica sensualità. Tancredi e Angelica davano sfogo ad una “esaltazione sensuale”.
C’è una scena che Tomasi di Lampedusa racconta con dovizia di particolari. La sensualità dolcezza raggiunge quella passionalità – erotismo che permea di estasi tutto il rapporto tra i due innamorati. “Una volta in una mattinata luminosa e fredda essa tremava nella veste ancora estiva; su di un divano coperto di stoffa a brandelli lui la strinse a sé per riscaldarla; il fiato odoroso di lei gli agitava i capelli sulla fronte; e furono momenti estatici e penosi durante i quali il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia”.
L’estasi che diventa passione. Ma è la passione che diventa trait d’union tra il tempo che separa e la memoria che racconta.
L’amore tra Angelica e Tancredi è, indubbiamente, un amore sentimento ma è più profondamente, e resta tale, un amore – erotismo senza il quale le immagini che si vivono nel romanzo non avrebbero una loro lucentezza e una loro schiettezza. In ogni immagine c’è l’erotismo che trionfa. Come in questa : “quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto : ‘Sono la tua novizia’, richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata gli offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. Si ripresero; e l’indomani Tancredi doveva partire”.
Nella sesta parte del romanzo (quella in cui si parla del ballo) Angelica assume tutte le sue sembianze e si mostra con tutta la sua femminilità: “…le bianche spalle di Angelica ricadevano verso le braccia forti e dolci”. Nell’ “influsso sensuale” del ballo Angelica è la bellezza ritrovata. Non lo è soltanto per Tancredi. Ma anche per Il Principe. Il quale legge negli occhi della donna il colore di antichi ricordi di una giovinezza ormai fuggita. E Angelica lo riporta ad un tempo lontano ma poi lo deposita nella realtà. Quel ballo riporterà il Principe, appunto, a fare i conti con il suo tempo. “Tanto assorto era nei suoi ricordi che combaciavano così bene con la sensazione presente che non si accorse ad un certo punto Angelica e lui ballavano soli”.
Nell’ultimo capitolo del romanzo compare un’Angelica invecchiata ma nei suoi tratti riconoscibile una antica bellezza. “In Angelica che era vicina ai settant’anni si scorgevano ancora molti ricordi di bellezza…”. I ricordi affiorano. Sono fantasmi che ritornano con una indelebile malinconia e continuano a raccontare e nel racconto emergono altre storie, altre avventure, altri destini.
Sono trascorsi molti anni e tutti i tasselli sembrano ricomporsi. Ci sono assenze come quella di Tancredi. Ci sono segreti rivelati, come la relazione tra Angelica e il senatore Tassoni, il quale nei confronti di Angelica “conservava quella insostituibile intimità conferita da poche ore passate fra il medesimo paio di lenzuola”.
In quei “vivi ricordi” i sogni cedevano il passo e la memoria restituiva le nostalgie, che, ormai venivano meno. Ormai tutto era lontano. Le scene si inseguivano e le partenze o le separazioni erano fatti naturali. Si ripercorrono alcune tappe come l’amore nascosto, ma non tanto di Concetta verso Tancredi. Amore non corrisposto. Ma tutto ormai veniva coperto dal tempo. “Gli spettri del passato erano esorcizzati da anni”. E Concetta restava lì a raccogliere altre lontananze. “Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno…”. E così tutto finiva. Un destino si realizzava nella sua compiutezza. La fine di un ciclo coincideva con la fine di tutti i ricordi.
Tempo ed eros raccontano, dunque, la vita. E la raccontano sul viatico dei giorni. Giorni che sono la metafore della quotidianità. È proprio il Principe, comunque, che apre questo dialogo. C’è l’amore – vita ma c’è anche l’amore – eros – peccato.
Resta emblematica l’immagine in cui si narra l’avventura del Principe con la prostituta Mariannina. Si consuma cosi un tradimento contro la sua Stella. “Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinnanzi alla legge divina e dinnanzi all’affetto umano di Stella! Si fa presto a dire! Il Signore sa se lo ho amata : ci siamo sposati a vent’anni. …sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che : ‘Gesummaria!’. Quando ci siamo sposati tutto ciò mi esaltava; ma adesso…sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho ami visto il suo ombelico. È giusto questo? (…) è giusto? Lo chiedo a voi tutti?”. Il conforto di Mariannina lo esaltava. “Mariannina lo aveva guardato con gli occhi opachi di contadina, non si era rifiutata a niente, si era mostrata umile e servizievole”.
Don Fabrizio era, certamente, l’espressione di un vecchio mondo che stava tramontando e proprio per questo la violenza del tempo assumeva una caratura fortemente passionale. Nel tempo c’era l’erotico istante del distacco. La morte era bellezza ma la bellezza non era soltanto Angelica. Era l’attimo fuggente tra le braccia di Mariannina. Eros come riappropriazione di un tempo che fugge e che ritorna soltanto nella graffiatura dei ricordi. Ma il Principe cercava altre intimità che lo potessero coinvolgere totalmente. Stella era l’amore – ricordo e, quindi, restava l’amore – passato. Un amore senza estasi. Mariannina ed altre, invece, erano l’amore vitalità. Perché, per il Principe, la vita si avvolge nella coscientizzazione della decadenza ma si ritrova nella passione travolgente di un gioco di sensi. Le “carezza” di Mariannina lo rendevano vivono. Ma restava sempre il dopo. Così come il profumo dei capelli di Angelica. E dopo la solitudine nel tempo che scompare.
Il Gattopardo è un romanzo che recita la fine di un’epoca e nonostante tutto imprime una forte sottolineatura alla riaffermazione dei valori della tradizione. Difende la tradizione. La difende in termini epocali. Da questo punto di vista può essere considerato anche un romanzo ideologico, soprattutto, inserito in quel contesto risorgimentale.
C’è un passo che il Principe pronuncia a Chevalley nel quale affiora una sprezzante ironia nei confronti di una vagante ideologia che prendeva piede in quel tempo. È il Principe che afferma : “Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; ma ciò, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure”.
C’è una difesa della tradizione ma c’è anche uno scetticismo che se pur velato di ironia attraversa il sentire della storia. “Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardo, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”.
Ma cosa è accaduto realmente? Forse la chiave di lettura politica è nel dialogo tra Don Ciccio e il Principe quando si parla del matrimonio tra Angelica e Tancredi. Don Ciccio dice : “Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine di Falconeri, e anche dei Salina”. Ma nello sconvolgimento epocale “questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini”.
Qui la tradizione si rompe e rompe gli schemi. In un passaggio storico – epocale si consuma la tradizione di una civiltà. Può anche trattarsi di “una lenta sostituzione di ceti” ma la rottura con la tradizione è indubbiamente la fine di una epoca.
E proprio qui subentra, appunto, il “rifiuto della storia”. Con questo rifiuto, ad occupare il campo resta la memoria con i suoi personaggi e con la tragicità che questi personaggi si trovano a vivere. Certamente, Il Gattopardo, tuttora, è un romanzo che potrebbe aprire una vasta discussione che riguarderebbe sì una visione su un Risorgimento letterario. Una letteratura, che si confronta con le indicazioni della storia ma che non può e non deve fare a meno di elementi che superano la stessa relazionalità contestuale per appropriarci di quelle lezioni metaforiche che sono vitali nel corpus del romanzo.
La storia, il tempo-memoria, i personaggi. Su questo itinerario Tomasi di Lampedusa ha costruito il suo menabò letterario. Ciò che alla fine resta non sono le date, ma la visione decadente di una civiltà, il rapporto tra tempo e morte nel viaggio epocale di quella civiltà che si raffigura nel Principe, la bellezza, l’estasi e l’eros di Angelica che assorbe tutte le movenze simboliche che trovano espressività, appunto, nei luoghi letterari del romanzo.
La poesia della memoria, la poesia dell’eros, la poesia della morte non sono una maschera, ma sono lo specchio dei personaggi che rivivono l’avventura di un destino nella tragedia comprensione degli avvenimenti. Tutto diventa, come in quei ricordi dell’infanzia in cui non esiste più, un “senso cronologico” ma tutto è retto da una visione di segni e di simboli attraverso i quali la storia perde le sue tappe. In cambio c’è una “immediatezza di sensazioni”, che traspare non tanto dal racconto dei fatti quanto dalla centralizzazione dei personaggi.
Forse anche per questo resta nella tradizione della contemporaneità.