In un momento di incertezza – economica, politica e sociale – come quello che il nostro Paese sta vivendo, la capacità di sorridere diventa un modo per esorcizzare i dubbi del futuro. Ma non tutti riescono o sanno sorridere. La satira è un modo irriverente per accostarsi alla realtà. Per la Corte di Cassazione (sez. III civ., n. 23314/2007) è un diritto, espressione del diritto di critica – di rilevanza costituzionale – che può esprimersi anche attraverso la rappresentazione artistica della vignetta con la quale si realizza la riproduzione ironica di un fatto anche mediante lo strumento dell’inverosimiglianza e dell’iperbole con l’obiettivo di provocare il riso.
“La satira” ha stabilito la Corte di Cassazione “è espressione artistica nella misura in cui opera una rappresentazione simbolica che (…) propone quale metafora caricaturale”. “La peculiarità della satira che si esprime con il paradosso e la metafora surreale,” continuano gli “ermellini” “la sottrae al parametro della verità e la rende eterogenea rispetto alla cronaca”. “Tradotto”, significa che la satira, per la sua natura di giudizio soggettivo ed opinabile, è sottratta al parametro della verità. Pertanto, ci si pone un interrogativo: l’irrisione e la presa in giro determinate dalla satira possono ledere la reputazione, bene giuridico tutelato dal reato di diffamazione?
La reputazione, bene giuridico tutelato dal reato di diffamazione, è intesa come la considerazione che i consociati (e non se stessi) in un determinato momento storico tributano ad un soggetto in base al suo comportamento in un dato contesto sociale. Può la satira, per sua natura preordinata alla deformazione della realtà per suscitare ilarità, creare discredito e quindi offendere il bene reputazione? Poiché la satira non è cronaca, quindi non racconta un fatto, la risposta a questo interrogativo è logica ed unica: no.
D’altronde, nel caso della diffamazione a mezzo stampa, la giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude il reato in presenza del cosiddetto “diritto di cronaca”, configurabile nel momento in cui sussistono tre condizioni: che la notizia data sia vera, che esista un interesse pubblico alla conoscenza di quei fatti e che siano rispettati i limiti in cui tale interesse sussiste mantenendo l’informazione entro i confini dell’obiettività. In materia di diffamazione a mezzo stampa o, comunque, con ogni mezzo di pubblicità, l’art. 596 del codice penale prevede che il colpevole dei delitti di ingiuria e diffamazione non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa (c.d. prova liberatoria).
Tuttavia, quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la persona offesa e l’offensore possono, d’accordo, prima che sia pronunciata la sentenza, deferire ad un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo. Nel momento in cui l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto stesso è sempre ammessa nel procedimento penale se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni, se per il fatto attribuito alla persona offesa è tuttora aperto o si inizia un procedimento penale, se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito.
Passando ora dalle massime della Corte di Cassazione e dall’argomentazione giuridica alla penna dei giornalisti, è da osservare che negli ultimi anni la querela è diventata uno strumento per intimidire chi ha fatto della libertà d’informazione il principio-guida della propria attività professionale. Spesso la querela diventa un mezzo per intimidire il giornalista “non allineato”, che intende semplicemente andare oltre la verità presentata dai comunicati stampa o “imposta”.
E spesso il giornalista querelato è costretto a cambiare rotta: i giornali, i nostri giornali, non possono permettersi polizze assicurative da capogiro o le spese per affrontare un giudizio, che può protrarsi anche per qualche anno. Inoltre, in virtù della querela si apre un procedimento penale che preclude la partecipazione a concorsi pubblici. In quattordici anni di giornalismo sono stato destinatario di diverse querele. Inizialmente la querela mi intimidiva.
L’assunzione della veste prima di indagato e poi di imputato alimentavano dubbi sulla correttezza del mio lavoro. Poi mi sono reso conto che la querela era solo la conferma della correttezza del mio modo di interpretare e fare giornalismo. In una realtà come la nostra, particolarmente sensibile ad imposizioni esterne, la querela richiama il tema della libertà d’informazione. Una libertà che soffre restrizioni di carattere esogeno ed endogeno. Quanto alle prime, basti pensare alle sponsorizzazioni commerciali o politiche. Le seconde, invece, attengono alla propria capacità di “resistere” alle prime e, quindi, alla propria onestà intellettuale.
Satira e libertà d’informazione: due facce della stessa medaglia di un sistema – la società – che opera attraverso la comunicazione. E volendo scomodare la sociologia, si tratta di un sistema dove è la coscienza – la propria – a controllare l’accesso del mondo esterno alla comunicazione.
Ricordiamo ai lettori che il contenuto di questi articoli ha una valenza generica e generale, e non può sostituire il parere di un legale relativamente a specifiche situazioni o casi individuali (N.d.R.)